Da tempo ormai, in gran parte dei politici di sinistra, è venuta consolidandosi una paradossale forma di automatismo nei modi di pensare la complessità della dimensione politica. Quanto meno essi si misurano con l’analisi delle condizioni materiali tanto più esercitano la fantasia nelle formule verbali.
E maggiormente nelle formule verbali adatte a mantenere la necessaria agilità di esercizio nel contesto del gioco politico. Costoro si sono specializzati nell’uso di parole e/o locuzioni «suggestive», cioè, come recita il Grande Dizionario della Lingua Italiana (Utet), tali da suscitare «uno stato di coinvolgimento emotivo, sentimentale, fantastico (…) che rappresenta evocativamente, pateticamente» piuttosto che analiticamente. Si è cominciato con la destrutturazione del termine «riformismo», ridotto alla piattezza unilineare di un valore positivo in sé indipendentemente dai contenuti, e poi via via all’uso sempre più frequente di parole tese alla costruzione di una retorica che falsifica i dati di realtà. Un uso che tende a consolidare un contesto politico-culturale che si potrebbe definire miserabile. Non in un’accezione ingiuriosa e/o d’invettiva, bensì nell’accezione in cui utilizza il termine Galileo: rinsecchimento della prospettiva intellettuale, o Leopardi: difficoltà a reagire a stimoli intellettuali.
Nell’attuale dibattito politico «di sinistra» è entrata una nuova/vecchia locuzione, una sorta di collettore, come vedremo, delle parole suggestive: «campo progressista».
Renzi ha detto: «Il renzismo non è un incidente di percorso, una parentesi della storia. Questo Pd rappresenta ancora la sinistra riformista italiana» (la Repubblica, 10 gennaio). Un’affermazione sulla dimensione complementare dell’«area progressista» al riformismo di Renzi. Renzismo come «sinistra riformista» ed «area progressista», infatti, appartengono alla stessa sfera della falsificazione tramite evanescenza concettuale, anzi tramite rifiuto esplicito di ogni concettualizzazione. «Riformismo», «progressismo» non si manifestano come concetti, cioè strumenti di analisi, ma come feticci del bene politico.
L’aggettivo «progressivo» usato per definire un «campo» politico già di per sé si riferisce ad un concetto, progresso, la cui ambiguità è da tempo al centro di una vasta letteratura critica. La «ambiguità», comunque, comporta la necessità di pensare problematicamente l’oggetto. Invece, nel modo in cui il «campo progressista» è entrato come proposta politica nel dibattito di «sinistra», non solo non si trova alcuna traccia di pensiero critico, ma neppure nessun elemento di connotazione.
Il «campo progressista», secondo le parole di Pisapia, dovrà essere capace di unire «il civismo, la sinistra, e il centrosinistra» e questo non solo è necessario, ma possibile visto che «sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci dividono» (Corriere della Sera, 10 gennaio). È giusto prendere in parola Pisapia sulle cose che dice di avere in comune con la forza largamente maggioritaria del «campo», il Pd; il problema è il carattere «progressista» delle «cose» vista la connessione essenziale che queste non possono non aver con la «cosa» Pd. Si invoca la «discontinuità», ma ci si guarda bene dal cercare le ragioni di una «continuità» che nel suo fondo resta immodificabile.
Un personalità del Pd, Goffredo Bettini, argomenta in questi termini la necessità dell’autocritica relativa ad uno dei punti chiave della invocata discontinuità: occorre che il Pd ponga rimedio alla «scarsa empatia» dimostrata «verso la sofferenza dei disagiati» (Blog Bettini, 7 dicembre). Parole analoghe a quelle che avrebbe usato un filantropo dell’Ottocento. D’altra parte quali sono gli strumenti tramite i quali è possibile aumentare il livello di empatia nei confronti dei «disagiati»? Gli scritti dell’ala sinistra del «campo progressista», e della parte del Pd che ha riscoperto la sua «anima» di sinistra, abbondano di esortazioni ad affinare la capacità di «ascoltare» i lamenti dei «più deboli» (Chiamparino), le esortazioni a rappresentare, nell’ambito dei progressisti, il gruppo con la maggiore «sensibilità» sociale.
«Empatia», «ascolto», «sensibilità», con qualche variazione di sinonimi, rappresentano il vocabolario che esprime l’orizzonte delle cose che «uniscono» il «civismo, la sinistra, il centrosinistra». L’oggetto di queste manifestazioni «empatiche» sono i «disagiati», i «diseredati», i «deboli». Per ora ci vengono risparmiati gli «umili».
In verità ogni tanto appare anche il termine «esclusi». Con un po’ di sforzo si potrebbe anche arrivare a vedere i «superflui». Ecco, magari riflettere sui meccanismi che creano continuamente una umanità superflua, sarebbe forse meno emotivamente accattivante, ma analiticamente più produttivo per dare senso ai variabili percorsi del «progresso». Si tratterebbe infatti di ragionare sui modi di accumulazione del capitale nelle diverse fasi. Si tratterebbe di «vedere se gli “animosi intelletti” che ancora si arrovellano nel pensare la politica, e magari provano anche a farla» abbiano la voglia di usare la strumentazione analitica del profondo, «e, eventualmente, il coraggio di tentare un radicale ripensamento della prospettiva della sinistra» (C. Galli, Ragioni Politiche, 6 Gennaio)