il manifesto, 28 gennaio 2017
Primo. La crisi perdura in modo feroce. La profezia di Krugman di una lunga stagnazione dopo gli anni del crollo si sta avverando. Non sarà lo zero virgola a cambiare le cose nei prossimi mesi e anche le locomotive del Pil mondiale arrancano. In Italia le cose vanno peggio.
A questi tassi di crescita, ci vorrà ancora una decina d’anni per tornare allo stesso livello del Pil del 2007. Nel frattempo il Censis ci dice che 10 milioni di italiani rinunciano a curarsi per mancanza di soldi, l’Istat che più di un giovane su tre non ha lavoro e che la povertà assoluta è tornata a crescere: 4milioni e 600mila italiani nel 2016.
Secondo. L’Europa. È diventata nel corso di questi anni non la soluzione, ma parte del problema. Uscire dall’euro risolverà i problemi? Fare l’euro senza politiche comuni è stato un grave errore. Ma è un errore anche pensare che senza euro sarebbe possibile tornare a fare politiche keynesiane.
Se si dovesse uscire dall’euro il segno sarà quello della destra nazionalista e non quello della sinistra radicale. I lavoratori hanno pagato un enorme prezzo per entrare nell’euro: non gliene facciamo pagare un altro per uscirne.
Serve un «aggiustamento radicale», dice Varoufakis: politiche comuni, democratizzazione della Bce, conferenza del debito, ecc. Non ci sono i rapporti di forza? Perché ci sono forse i rapporti di forza per uscire dall’euro senza il rischio di una catastrofe sociale?
Terzo. L’Italia ha sofferto più di altri questa crisi, ma l’ha affrontata con gli stessi strumenti del neoliberismo europeo ed atlantico: riduzione della spesa pubblica, precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, mercato. Prima con la tecnocrazia di Monti, poi con il populismo dall’alto di Renzi, le politiche seguite sono state le stesse: quelle neoliberiste, con risultati economici catastrofici, conseguenze sociali drammatiche, un sistema industriale devastato. Le imprese italiane sono state svendute al miglior offerente o (come la Fca/Fiat) se ne sono andate: il nostro paese è diventato una sorta di bad company del modello neoliberista globale.
Quarto. Il Pd – Renzi o non Renzi – ha alzato bandiera bianca di fronte alla destra. Ed è questo che rende impossibile alcuna coalizione o le primarie con un partito che ha fatto politiche neoliberiste. C’è una mutazione strutturale e irreversibile che ha trasformato il Pd, da «partito» di centro-sinistra a «partito della nazione», coacervo di comitati elettorali. La minoranza del Pd – che ha alternato afonia politica ed errori madornali – appare assolutamente ininfluente e residuale.
Quinto. Il centro-sinistra è morto. Dobbiamo invece costruire una sinistra alternativa, fondata sull’autonomia e non sull’opportunismo di alleanze spurie. Il congresso di Sinistra Italiana può dare un decisivo contributo, ma senza autosufficienza. Solo un campo aperto di una politica diffusa e plurale – fatto di partiti, movimenti, associazioni, liste civiche, territoriali, organizzazioni del lavoro, ecc. – può ricostruire una cultura politica che si sottrae ad un politicismo rifiutato da chi a sinistra non va più a votare. Si tratta poi di prepararsi alle imminenti elezioni. In coalizione con questo Pd non si può andare. E nemmeno con tre più liste diverse alla sinistra del Pd o con una lista frutto di accordi dell’ultimo minuto.
Serve da subito un processo di contaminazione capace di costruire una cultura politica comune fondata sull’autonomia ed un progetto convincente di trasformazione. E serve una leadership corale capace di federare e di interpretare – anche con la propria storia personale nelle lotte sociali e per i diritti- la volontà di unità e di cambiamento che ci ha consegnato il voto del 4 dicembre. A queste condizioni è possibile mantenere aperta la costruzione di una sinistra capace di dare voce alle domande di cambiamento del paese.