Il manifesto, 29 dicembre 2013
Siamo un paese smemorato, dove tutto si ripete ciclicamente come se accadesse la prima volta. Dove la memoria e l’esperienza non procedono per addizione ma per sottrazione. Dove lo sdegno per ingiustizie e misfatti pubblici resiste finché i media e qualche personaggio politico vogliono farlo durare. Forti di tale consapevolezza, questa volta non dovremmo mollare. Ora che l’ondata di proteste, neppur’essa inedita, dei reclusi nei lager di Stato – che si chiamino Cie, Cara o Cpsa — ha ricevuto una speciale risonanza pubblica, dovremmo insistere fino a ottenere una riforma radicale delle normative che regolano l’immigrazione e l’asilo.
Altrimenti tutto tornerà come prima. I lager ridiventeranno “centri di accoglienza”: così il 21 dicembre l’Ansa e molti quotidiani online (compreso Il Fatto Quotidiano) definivano il Cie di Ponte Galeria, dando la notizia della «protesta choc», come dicono loro, delle labbra cucite. Altrimenti, anche la «protesta choc» e l’atto coraggioso del deputato Khalid Chaouki, auto-reclusosi nel Cpsa di Lampedusa, saranno presto dimenticati.
Così come oggi si dimentica che altre volte gli “ospiti” dei lager italiani — come di altri paesi, europei e non — hanno fatto ricorso a questo gesto autolesionista altamente simbolico: per esempio, a novembre del 2010, nel Cie di Torino, lo fecero in una decina; alcuni mesi prima a cucirsi la bocca era stata, nel Cie di Bologna, una trentenne tunisina cui era stato rifiutato l’asilo. Nulla seguì a queste «proteste choc» se non alcune deportazioni.
Siamo un paese smemorato, dove perfino gli autori della legge 40 del 6 marzo 1998 sembrano immemori del fatto che fu la loro creatura a inaugurare la detenzione amministrativa. Aprendo così la strada a un crescendo di gravi violazioni della Costituzione, dello stato di diritto, dei diritti umani, della stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: violazioni quasi sempre approvate dal capo dello stato di turno, compreso l’ultimo. Siamo il paese dove anche rispettabili politici e rappresentanti di istituzioni, per non dire di buona parte dei giornalisti, ignorano la legislazione sull’immigrazione e quella sull’asilo; e suppongono sia sufficiente qualche ritocco alla Bossi-Fini per “umanizzare” il trattamento discriminatorio, ingiusto e/o crudele inflitto a migranti, profughi e richiedenti asilo. Ignari del fatto che si tratta invece di smantellare non solo i lager di Stato ma anche l’intero impianto che regge norme quasi tutte all’insegna del sorvegliare e punire: perlopiù ispirate dal principio di un diritto differenziato riservato agli “altri”, avarissime nel conferire i diritti di cittadinanza, a cominciare dalla nazionalità italiana e dal diritto di voto.
Anche su quest’ultimo versante c’è il rischio che la montagna dell’attuale protagonismo politico di migranti e rifugiati produca solo qualche topolino nato male. Ieri il ministro della Difesa, Mario Mauro, ha avuto l’ardire di proporre «una piccola modifica della Costituzione per dare agli immigrati la possibilità di entrare nelle forze armate» e guadagnare così qualche punto per ottenere la nazionalità italiana. Insomma, se abbiamo capito bene, il ministro ribadisce l’idea di un diritto speciale riservato a una speciale categoria di persone. Abolita, di fatto, la leva obbligatoria da quasi un decennio, si tratterebbe, in sostanza, di reintrodurla solo per gli immigrati: una sorta di reclutamento degli ascari, che andrebbero così a costituire i «battaglioni indigeni», di funesta memoria coloniale, per «missioni di pace» particolarmente difficili. Non contento di questa bella trovata, nella stessa intervista a Libero Mauro oppone allo ius soli, come si dice sbrigativamente, l’oscura nozione dello ius culturae: un concetto (si fa per dire) rubato a Giovanni Sartori, singolare impasto vivente di spocchia accademica, incompetenza nel campo specifico, smodata xenofobia.
Abbiamo citato questi spropositi solo per ribadire che occorre sventare il rischio che le proteste di migranti e rifugiati e una certa attenzione pubblica verso la questione dei loro diritti siano presto svuotate e cannibalizzate dalla politica politicista e dai giochi del governo delle intese semi-larghe. Si tratta dunque di alzare il livello della mobilitazione. Della quale una tappa importante sarà di certo l’appuntamento per scrivere collettivamente la Carta di Lampedusa: dal 31 gennaio al 2 febbraio 2014, infatti, movimenti, associazioni, reti delle due sponde del Mediterraneo si ritroveranno nell’isola per elaborare un patto costituente «che metta al primo posto le persone, la loro dignità, i loro desideri, le loro speranze». Ma una tappa ancor più rilevante sarebbe quella di una manifestazione nazionale, per affermare con vigore che questa volta non permetteremo che tutto ricominci come se niente fosse accaduto.