Ventisei milioni di disoccupati sopravvivono nella grande depressione europea. E tra qualche settimana saranno tra quelli chiamati alle urne mentre i sondaggi annunciano un’astensione dilagante accompagnata da una forte affermazione dei movimenti antieuropei di estrema destra. Le cifre offerte dall’Eurostat per il 2013 parlano di un aumento, rispetto all’anno precedente, di poco meno di due milioni di disoccupati e nell’amara classifica l’Italia si assicura un posto in prima fila: secondo i numeri dell’Istat, il nostro paese conta 3,248 milioni di senza lavoro con un aumento rispetto all’anno scorso di 194 mila persone.
Nel paese flagellato dalla mancanza di occupazione, la prima bolla di sapone gonfiata dallo slogan del Jobs Act è stata anche la prima a scoppiare in faccia al mondo del lavoro. Il governo delle scelte rapide e concrete, annunciando un cambio di verso aveva suscitato aperture di credito anche nella parte più combattiva e radicale del sindacato come la Fiom. Salvo poi mettere da parte le buone intenzioni (il contratto unico a tempo indeterminato con tutele progressive), per chiedere invece al parlamento il voto di fiducia al decreto Poletti. Un’overdose di precarietà decretata dal ministro con un provvedimento che si preoccupa di cancellare persino le pallide garanzie inserite, nella stagione del tecnico Monti, dalla ministra Fornero. In altri tempi avremmo avuto la protesta in piazza e i denti di dracula disegnati sulla bonaria silhouette di Poletti. Invece, in omaggio al nuovo che avanza, il sindacato ha levato al cielo della politica flebili rimostranze, incastrato, nel frattempo, dagli 80 euro che il presidente del consiglio ha infilato nelle buste paga dei lavoratori dipendenti e tra i piedi dei sindacati.
Gli imprenditori seri confessano che il decreto Poletti non li aiuterà ad assumere ma a sfruttare di più i precari, e aggiungono che l’occupazione non si crea con la precarietà ma abbassando i contributi fiscali. Del resto che la flessibilità non serve a farci uscire dalla recessione lo scrive il New York Times, mentre il capo degli economisti del Fondo monetario internazionale afferma che non c’è alcun nesso di causa-effetto, in un contesto di crisi economica strutturale, tra flessibilità e riduzione della disoccupazione.
Oltretutto la cura da cavallo dei contratti a termine non è stata neppure accompagnata da un progetto sul destino industriale del paese. Renzi ha compiuto la sua infornata di nomine nelle grandi aziende partecipate dallo Stato senza nulla dire, come ha giustamente osservato il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, sugli obiettivi da perseguire, sulle scelte strategiche da compiere («nomine senza mandato»). Il caso Lucchini è emblematico proprio di questa mancanza di visione sul nostro futuro assetto industriale. La nostra non è solo una crisi di domanda, ma anche una debolezza di offerta: produrre come e per che cosa?
Lavoratori, cassintegrati e precari, da Pordenone a Taranto, da Milano a Roma oggi, come ogni anno, tornano a sventolare le bandiere del Primo Maggio. E dice bene Susanna Camusso quando osserva, rubando il mestiere a monsieur Lapalisse, che oggi si va in piazza per la festa della disoccupazione