È stato soprattutto un discorso al parlamento come unico luogo dove può esercitarsi la politica: può sembrare insufficiente a quanti hanno un'idea diversa, più larga, della partecipazione ma è probabilmente un bene che il nuovo presidente della Repubblica si presenti consapevole dei limiti del suo mandato. «Sobrietà e rispetto dei limiti» ha detto appunto Giorgio Napolitano che non sarà un capo dello stato da messaggi in televisione. Eppure sarà un presidente molto politico, dopo gli anni del grande tecnocrate Ciampi. Il discorso di insediamento è stato profondamente calato - persino dichiaratamente - dentro l'attuale quadro parlamentare. Semmai è lo schema interpretativo del presidente che è sembrato datato. L'Italia non è al 2 giugno 1946 che tutt'al più è un anniversario da ricordare. A parte risultare poco interessante per i cittadini delle Repubblica meno che senescenti, lo schema paese diviso - politica condivisa va malissimo per il paese reale. Può solleticare le parti più inclini al trasformismo, che infatti hanno reagito con entusiasmo.Mase accolto sarebbe piombo nelle ali del nuovo governo e della maggioranza che ha prevalso nelle elezioni seppure - Napolitano ha puntualizzato - «lievemente». D'accordo: un presidente della Repubblica non può che invitare alla concordia e in questo senso Berlusconi resterà piacevolmente sorpreso dal nuovo presidente. Credesse un po' meno alla sua stessa propaganda il Cavaliere saprebbe da tempo che nessuno più di un ex comunista di destra può affezionarsi al ruolo del garante. Ma Napolitano è un parlamentarista convertitosi al maggioritario che ha parlato da bipolarista convinto. A parte il '46 le altre date che ha citato come fondanti sono state il '93, anno del referendum maggioritario, e il '94 quando le elezioni le ha vinte Berlusconi. Per questa via Napolitano ha spalancato ogni porta alle riforme costituzionali. Partendo dal presupposto, errato, che tutti i progetti di riforma portati avanti negli ultimi anni non hanno «mai messo in questione i principi fondamentali». Sulla distinzione tra prima e seconda parte della Carta ormai da tempo invitano alla prudenza i costituzionalisti più accorti. E basta guardare la devolution per avere la prova di come lemodifiche ordinamentali colpiscano alla fine i principi. Così se modifiche andrebbero fatte alla Carta del '48 è precisamente per metterla al riparo dagli effetti del maggioritario, magari andrebbe ritoccato anche l'articolo 138 così che l'aspirazione alla condivisione possa risultare meno vana. Non ci è piaciutoNapolitano soprattutto per la volontà di riportare tutto su un terreno di larghe intese, anche oltre la ritualità del capo dello stato. Perché fatto in chiave politica prima che istituzionale. Con accenti da solidarietà nazionale più che nello spirito repubblicano. Ed ecco la Resistenza buona per gli applausi di sinistra ma anche per quelli di destra per via delle sue «aberrazioni». Ci sono piaciuti invece un paio di passaggi classicamente riformisti: non è poco di questi tempi sentir parlare di «giustizia sociale» o avvertire la preoccupazione per il lavoro esposto «alla precarietà e alla mancanza di garanzie». Bene anche il richiamo al ripudio della guerra e soprattutto quella notazione sul «grado di consenso » della missione italiana in Iraq giustapposto all'omaggio ai nostri caduti: in questo caso la differenze politiche non si potevano proprio nascondere. Peccato però che tutto questo debba passare in secondo piano davanti all'omaggio «deferente» al papa che nemmeno Napolitano ha saputo evitare. Aggiungendoci per buona misura un invito alla collaborazione tra stato e chiesa. Davvero troppa grazia.