Titolo originale: The city that will be – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Trent’anni fa, nel loro libro Tremila anni di sviluppo urbano, gli storici Tertius Chandler e Gerald Fox avevano calcolato che, fra tutte le città alluvionate, bruciate, saccheggiate rase a terra da un terremoto, sepolte dalla lava, o in un modo o nell’altro distrutte – fra 1100 e 1800 in tutto il mondo – solo qualche decina era stata abbandonata per sempre. In altre parole, le città tendono ad essere ricostruite, sempre.
Ci hanno assicurato che accadrà così anche per New Orleans. Abitanti e amministratori – e insieme a loro gli abitanti e amministratori di tutta la costa della Louisiana e del Mississippi – hanno promesso di tornare e ricostruire, e il governo federale ha promesso di sostenerli. “La grande città di New Orleans sarà di nuovo in piedi”, ha detto il presidente Bush mercoledì. “E l’America sarà più forte per questo”.
Ma, dopo quello che si presenta come uno sforzo erculeo di pulizia, come apparirà New Orleans? Quanto assomiglierà a sé stessa prima del diluvio?
La risposta facile è che, ora come ora, non lo sa nessuno. Con tutti concentrati sui soccorsi agli abitanti sfollati e per il ristabilimento di un minimo di ordine, con poche idee di cosa si troverà quando le acque defluiranno, e con la città che probabilmente resterà inabitabile per molti mesi a venire, è comprensibile che molti funzionari abbiano detto poco riguardo al futuro non immediato. Eppure, secondo Paul Farmer, direttore esecutivo della American Planning Association (APA), una volta che le persone ritornano nelle città devastate “c’è spesso una corsa alla ricostruzione troppo rapida”, senza tante discussioni su cosa esattamente vada costruito.
E il dibattito, quando arriva, è aspro. “Ci sono miriadi di soggetti interessati, da abitanti e proprietari immobiliari, ad amministratori locali e statali, ad interessi economici vari” dice Jerold Kayden, co-presidente del Department of Urban Planning and Design alla Graduate School of Design di Harvard. Che tipo di piano generale emerge da questo intrico di interessi nessuno può immaginarlo, ma è possibile anche da ora avere un’idea delle possibilità. Il fatto che alcune di esse siano piuttosto radicali, serve solo a ricordare meglio – se ce ne fosse bisogno – la difficoltà di costruire una New Orleans più sicura.
Anche se nessuno vuole parlare del caso di New Orleans in termini diversi da quelli di una tragedia epica, architetti e urbanisti concordano sul fatto che, dal punto di vista storico, le devastazioni spesso hanno creato un varco alla possibilità di affrontare problemi strutturali profondi e antichi. Dopo il grande incendio di Chicago del 1871, per esempio, la città fu trasformata da un’edificazione prevalentemente in legno a una (molto meno infiammabile) in mattoni. “Ci fu un radicale mutamento culturale nella progettazione edilizia” sostiene James Schwab, ricercatore dell’APA specializzato in ricostruzione dopo eventi calamitosi, “una determinazione a far sì che, se non si vuole che le cose che non si desiderano accadano ancora, occorre un profondo mutamento nel modo di agire”.
Nel caso di New Orleans, l’idea forse più provocatoria è che la città, o almeno parte della città, sia spostata verso una localizzazione meno precaria. Il portavoce della Camera Dennis Hastert ha provocato furori suggerendo, in un intervento su un giornale locale di Chicago, che non aveva senso spendere miliardi per ricostruire New Orleans ancora sotto il livello del mare, ma i pianificatori continuano a dire che è davvero qualcosa a cui val la pena di pensare. Per dirla con David Godschalk, professore emerito di pianificazione urbana e regionale alla University of North Carolina, “La domanda da un milione di dollari in questo caso, è se ricostruirla dove sta, oppure no. Il fatto è che in primo luogo lì non si sarebbe dovuto costruire niente, cosa ora piuttosto chiara”.
Kayden crede che il muovere o meno la città dipenda in parte da quanto di essa resterà dopo l’alluvione: “Spero che ci sarà ancora parecchio tessuto urbano al suo posto, ma se non è così – se ci sarà una tabula rasa, se ci saranno enormi spazi inutilizzabili – allora cosa ci sarà da ricostruire? Perché farlo sotto il livello del mare?”
I particolari di un progetto del genere sarebbero diabolicamente complessi, e solleverebbero questioni che vanno da quelle pratiche (dove la mettiamo?) ad un livello quasi filosofico (sarebbe ancora la stessa città?). Lawrence Vale, direttore del Department of Urban Studies and Planning al MIT, e tra i curatori del recente libro The Resilient City: How Modern Cities Recover from Disaster (Oxford), vede parecchie questioni di carattere economico e politico che renderebbero contraddittorio il dibattito sulla proposta. “Ho la sensazione che la quantità di persone che solleverebbe obiezioni, sarebbe direttamente proporzionale alla loro distanza da New Orleans” dice. “L’insieme delle quantità di investimenti finanziari già presenti in città, e di quelle di attaccamento emotivo al luogo, rende davvero molto difficile pensare di muovere la città”.
Forse ancora più ambiziosa, la possibilità di spostare semplicemente il fiume. Per dirla con Godschalk “Potremmo pensare a riorientare il Mississippi, uno dei fattori che ha fatto precipitare la situazione”. Anche se suona fantastico, il fatto è che oggi il fiume scorre dentro a New Orleans grazie a un sistema assiduamente mantenuto di dighe a monte e argini. Il fiume ha cambiato percorso parecchie volte nella sua esistenza, ed è solo per via di un massiccio sforzo ingegneristico che non ha cambiato direzione cinquant’anni fa, fissandosi all’attuale letto.
Naturalmente, anche se un’opera del genere dovesse essere considerata fattibile, i costi finanziari e sociali sarebbero inimmaginabili e complessi. Ci sono interi insediamenti urbani e industriali cresciuti lungo il fiume. Godschalk ammette subito l’enormità dei processi di negoziazione necessari: “Che dovremo fare di tutte le proprietà, di singoli e imprese, padroni di casa e via dicendo? Come è possibile risarcire tutta questa gente?”
Un’altra idea sul versante del fiume viene da un programma della Harvard Graduate School of Design coordinato da Joan Busquets, professore già impegnato nell’ufficio pianificazione di Barcellona negli anni di riorganizzazione della città per le Olimpiadi del 1988. Questa primavera, il gruppo di studenti di architettura di Busquets ha studiato modi per rivitalizzare New Orleans, che anche prima di Katrina era una città economicamente depressa. La soluzione trovata è stata di concentrare gli interventi sui docklands lungo il Mississippi. Guardando all’esempio di Rotterdam, altra città porto sotto il livello del mare (e in un paese che è stato in gran parte sottratto al mare), si è ipotizzato che New Orleans spostasse la gran parte delle proprie derelitte attività navali ai margini esterni della città, trasformando la zona – che comprende alcune delle località a livello più elevato – in un distretto commerciale e residenziale.
Ora, dopo Katrina, sostiene Busquets, il nuovo intervento potrebbe assorbire molti degli abitanti delle zone più basse e vulnerabili, che potrebbero essere abbandonate a fungere da fascia di interposizione per gli allagamenti, ripristinando in parte la logica originaria dell’insediamento urbano. “Per decenni o secoli – spiega Busquets – la città ha scelto sempre i terreni più elevati da adibire a residenza. Quelli più bassi erano scarichi in caso di forti piogge”.
Ci sono anche aggiustamenti con minori trasformazioni, che potrebbero aiutare in qualche modo. “Una delle cose che si usa spesso nei terreni alluvionali costieri è l’edificazione rialzata” dice Schwab. “Semplicemente, lasciare i piani bassi vuoti, così che l’acqua possa passare senza toccare le parti abitate”. In altre parole, si tratterebbe di alzare le abitazioni su palafitte. Si potrebbero usare materiali diversi. “Legno e intonaco non tengono bene” continua Schwab . “Il cemento lavora molto meglio”.
Modifiche del genere trasformerebbero il carattere architettonico particolare della città, il suo famoso aspetto storico e l’atmosfera. Ma come dice Vale “una città sostenibile deve interagire non solo con la propria storia, ma anche con l’ambiente”.
Il modo in cui New Orleans è stata costruita, dopo tutto, non solo ha mancato di proteggerla, ma potrebbe addirittura aver aumentato gli effetti dell’uragano Katrina. A partire dall’inizio del XX secolo, sottolineano gli urbanisti, il prosciugamento e bonifica delle aree umide per l’edificazione, e il fatto di impedire le regolari esondazioni del Mississippi con gli argini, ha privato New Orleans delle difese naturali contro gli uragani. Gli acquitrini aiutano ad assorbire le onde di tempesta, le esondazioni distribuiscono la forza del fiume e lasciano sedimenti che contribuiscono a contrastare l’affondamento costante della città.
Nota: il testo originale al sito del Boston Globe ; i medesimi dubbi sull'opportunità di ricostruire New Orleans, in un'intervista del Corriere della Sera al geofisico Klaus Jacob riportata su Eddyburg (f.b.)