Il rapporto di Confindustria sulla situazione dell´economia italiana – denominato "Checkup competitività" – presenta una lunga serie di dati che attestano in modo inequivocabile come essa volga al peggio, sia rispetto al proprio stesso passato, sia nel confronto con le principali economie europee. Saremo pure il Paese con il maggior numero di auto e di cellulari per abitante, come ha sottolineato ieri il presidente del Consiglio per declamare ancora una volta quanto siamo benestanti.
Ma se i dati assemblati dal Centro studi di Confindustria non miglioreranno rapidamente nei prossimi anni, rischiamo anche di essere il paese con il maggior numero di imprese in via di fallimento, o ridotte ai margini dei circuiti produttivi internazionali. Nonchè di lavoratori poveri rinchiusi in un cerchio invalicabile di lavori precari, e di giovani senza più speranze.
Il rapporto non fa proposte per ovviare a tale rischio, ma esse sono implicite nei dati che contiene e nel modo in cui sono organizzati. Il quale ha il merito di non risparmiare nulla allo stato e alla politica, per ciò che attiene alle rispettive responsabilità nel causare il peggioramento strutturale della situazione economica; ma, a ben guardare, nemmeno alle imprese. Senza che le responsabilità dei primi possano essere separate nettamente da quelle delle seconde. E´ come tirare il filo di un certo colore in un gomitolo arruffato che di colori ne contiene diversi. Si veda la ridotta percentuale di popolazione in età 25-34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario.
In Italia nel 2002 essa toccava solamente il 12%, poco più di metà della Germania, e appena un terzo rispetto alla Francia. Nel produrre tale deficit le responsabilità decennali dello stato e della politica sono indubbie. Ma appena si tira un po´ questo filo si scopre che anche le imprese non ne escono indenni. Tra i laureati, infatti, enfatizza il rapporto, sono troppo pochi rispetto agli altri paesi Ue i laureati in materie scientifiche e tecnologiche. Sta il fatto che i tipi di laurea vanno dove il mercato del lavoro offre occupazioni attraenti, e questo non è il caso di tali laureati. Si sa che ad essi l´industria e i servizi - lo provano le rilevazioni del consorzio inter-universitario Almalaurea - offrono anche dopo diversi anni di lavoro le retribuzioni più basse tra tutte le specializzazioni universitarie, insegnanti esclusi. Di conseguenza gli iscritti a tali tipi di laurea sono complessivamente in forte diminuzione da una quindicina di anni.
Continuando a tirare questo o quel filo si fanno altre scoperte, nel rapporto in parola. Ad esempio il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre il 3% l´anno, riducendo la capacità competitiva delle imprese italiane. Ciò è dovuto in parte alla stagnazione della produttività del lavoro: appena lo 0,3% annuo, contro il 2,5 della Spagna e addirittura il 4,7 del Regno Unito. In parte al permanere di un rilevante cuneo fiscale, che fatta uguale a 100 la retribuzione netta spettante al lavoratore aggiunge un onere di ben 83 punti a carico delle imprese. Ridurre tale cuneo è certamente un compito dello Stato - anche se in paesi molto più competitivi dell´Italia come la Francia e la Germania esso è ancora più elevato. Ma lo stesso rapporto dice che le imprese italiane investono poco in ICT, in formazione manageriale e in organizzazione; esportano beni ad alto contenuto tecnologico in misura pari alla metà dei maggiori partners europei, appena il 12% contro il 23; cooperano in misura minima con le università. Un insieme di condizioni che non può che incidere negativamente sul livello di produttività del lavoro.
Tra altri fattori che incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane il rapporto colloca la burocrazia, l´eccesso di regolazione, le lunghe pratiche per aprire un´attività di impresa. Anche in questo caso il tentativo di tirare fili di uno stesso colore dall´aggrovigliato gomitolo della competitività non va a buon esito. Infatti è certo vero che le regole pongono vincoli all´attività economica, e lo stato deve in ciò limitarsi; però le imprese italiane non presentano un record autoregolativo particolarmente lusinghiero nei casi in cui le regole pubbliche sono state per lungo tempo minime, ad esempio in campo ambientale.
Diversamente dai nodi della mitologia, un simile groviglio di concause che hanno portato al declino della capacità industriale del nostro paese non si può tagliare. Conviene, faticosamente, cercare di districarlo. Ha impiegato anni per formarsi; ce ne vorranno altri per rimettere in ordine i diversi fili. Il rapporto di Confindustria aiuta a capire quali potrebbero essere a tal fine i ruoli complementari della politica e dello stato, e delle imprese.