Epa, il cappio europeo al collo dell'Africa
Cinzia Guzzini
Nairobi
«L'Europa ha visto tutte le piroghe che sono partite questa estate per la Spagna dal Senegal? Ebbene, su quelle barche c'erano i contadini. Contadini costretti a partire perché non riescono più a vivere della loro agricoltura», dice Babacar Ndao, uno dei rappresentanti della Roppa (la rete delle organizzazioni agricole dei paesi dell'Africa occidentale). «E' l'effetto incontestabile della liberalizzazione del mercato: gli aggiustamenti strutturali imposti dall'Organizzazione mondiale del commercio negli anni passati hanno costretto i nostri paesi ad abbassare le tariffe doganali e a spingere il pedale delle privatizzazioni: questo è stato il risultato. Ora stanno per completare l'opera». Ndao ha appena concluso il suo intervento al seminario contro gli Epa, uno dei tanti che si svolge allo stadio Kazarani di Nairobi. Sono loro il fantasma che attraversa questo settimo Social forum mondiale, i grandi accusati. Perché per quanto la sigla Epa sia pressoché sconosciuta - moltissimi europei guardano con curiosità lo striscione che annuncia l'incontro, qualche italiano la scambia con l'abbreviazione di epatite - gli «accordi di partenariato economico» sono il cappio che sta per stringersi attorno al collo dell'Africa. «La Commissione europea sta siglando accordi con le regioni africane per stabilire aree di libero mercato - spiega Ndao - Questo significa che i paesi europei pretendono la completa eliminazione dei dazi doganali in modo da competere con i nostri prodotti». Chi avrà la meglio in questa «competizione» è facile da immaginare.
«L'Europa pretende di arrivare con i suoi prodotti nei nostri paesi, ma la nostra agricoltura non ha niente degli standard agricoli europei: ci vorranno almeno venti anni. E nel frattempo la nostra agricoltura deve essere protetta. Come d'altronde l'Europa protegge la propria», aggiunge una donna del Camerun, che rappresenta le reti contadine dell'Africa centrale. A partire dal primo gennaio 2008, cioè tra meno di un anno, gli Epa entreranno in vigore. «Per noi è una vera catastrofe», dice Yaboxyekk Haile, etiope, membro della ong Acord e arrivato a Nairobi con il neocostituito Ethiopian Social Forum. «L'agricoltura famigliare, quella più diffusa, verrà completamente distrutta. Ma accadrà lo stesso anche con le piccole industrie, che non potranno avere prezzi abbastanza competitivi». Haile sottolinea le ipocrisie di Bruxelles: «Parlano di libero mercato, ma una mucca europea riceve due dollari al giorno di sussidi, quando il 45% della popolazione in Etiopia vive con meno di un dollaro al giorno». Un esempio piuttosto scioccante.
La contrattazione sugli Epa è iniziata dopo la firma degli accordi di Cotonou nel 2000, tra l'Europa e i paesi Acp (paesi dell'Africa dei Caraibi e del Pacifico): fino a quel momento i paesi Acp godevano di una clausola preferenziale che però, secondo le regole del Wto, scade il 31 dicembre 2007. Da quel momento in poi devono entrare in vigore nuovi accordi: ed è così che si è scatenata la corsa agli Epa. «Ma gli accordi di Cotonou prevedevano tre pilastri: l'aspetto politico, sociale e economico. I tre pilastri sono stati messi da parte, e gli accordi riguardano soltanto l'aspetto finanziario», denuncia ancora Haile. I sostenitori degli accordi di partenariato economico ritengono che il libero mercato stimolerà anche la produttività delle aziende e dell' agricoltura del sud. Una filosofia che può apparire molto moderna, ma che in Africa e in altre zone del pianeta viene applicata in modo sfrenato da almeno venti anni. E i risultati sono pessimi: in Ghana 50 mila posti di lavoro nel settore tessile sono scomparsi dopo la liberalizzazione delle importazioni tra il 1987 e il 1993. Babacar Ndao racconta che in Senegal tra il 2003 e il 2005 sono scomparse 56 aziende per effetto dell'entrata in vigore delle tariffe esteriori comuni (un ennesimo taglio delle tariffe doganali). Qui, al Social forum, i movimenti contadini africani stanno cercando di coordinarsi per impedire ai propri governi di firmare gli Epa. Ma senza una mobilitazione in Europa, la loro lotta sarà molto più dura.
Sentinelli: la cooperazione deve cambiare
«La cooperazione internazionale deve cambiare, le decisioni devono essere prese dai governi ma insieme ai movimenti e alla società civile». La politica della donazione non funziona, è meglio diventare partner dei paesi. Unica rappresentante del governo italiano al Forum di Nairobi, Patrizia Sentinelli ha parlato di Africa e beni comuni: «Acqua, energia e cibo sono della popolazione e non delle multinazionali. Basta con le politiche che portano via le risorse».
«L'Italia dimentica gli Obiettivi Onu»
Emanuele Giordana*
«Siamo francamente stupiti che nella legge delega di riforma della cooperazione non ci sia praticamente alcun accenno agli Obiettivi del Millennio, la "road map" della comunità internazionale per la lotta alla povertà». Silvia Francescon è la coordinatrice per l'Italia della Campagna del Millennio delle Nazioni Unite, gli otto obiettivi che dovrebbero trasformare in realtà le decisioni prese nel 2000, con la Dichiarazione del Millennio. All'epoca 189 leader mondiali si impegnarono a eliminare la povertà, o almeno le sue forme più scandalose, attraverso appunto otto Obiettivi da raggiungere entro il 2015: dimezzare la povertà estrema e la fame; raggiungere l'istruzione primaria universale, promuovere l'uguaglianza di genere, diminuire la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere l'Hiv/Aids, la malaria e le altre malattie, assicurare la sostenibilità ambientale, sviluppare un partenariato globale per lo sviluppo. «Ma su quest'ultimo tema - aggiunge Francescon - vediamo pochi avanzamenti. L'Italia non è tra i paesi che redigono un bilancio dello stato dell'arte del punto 8, che riguarda gli impegni dei paesi ricchi». Manca un segnale forte insomma, e da questo punto di vista la legge delega di riforma della Cooperazione, fatta propria il 12 dicembre dal consiglio dei ministri, pare alla rappresentante dell'Onu troppo avara.
Nella legge c'è un riferimento alle Nazioni Unite nelle prime righe...
Si, ma resta un principio troppo vago perché non c'è alcun riferimento agli Obiettivi del Millennio, mentre sarebbe stato importante, e in linea tra l'altro col Programma dell'Unione, un segnale forte sull'impegno italiano, com'è per altri paesi europei. Francamente la cosa ci ha stupito.
Gli altri paesi?
Ogni paese ha una strategia, il problema è che l'Italia non sta spiegando qual è la sua. Nazioni come l'Olanda o la Svezia preparano dei rapporti che monitorano l'Obiettivo 8 che, a differenza degli altri che responsabilizzano i paesi in via di sviluppo, è incentrato sui doveri dei paesi ricchi. L'Italia non lo fa: è come se non sapessimo qual è la strategia in termini quantitativi e qualitativi.
Cominciamo dalla quantità.
Questo è forse un difetto anche della legge. Non c'è alcun riferimento all'obiettivo dello 0,7% del Pil entro il 2015 o dello 0,51% entro il 2010. Ora noi sappiamo che l'Italia è nella situazione scandalosa di essere il fanalino di coda nell'aiuto pubblico allo sviluppo, ma il governo, pur se il programma dell'Unione era stato molto puntuale, non ha più dato indicazioni. Come ci arriveremo e quando?
La qualità...
La povertà non si vince solo coi soldi e devo dire che da questo punto di vista la legge delega fa un passo avanti molto importante. Mi riferisco all' "aiuto legato" quando si scrive che "nelle attività di cooperazione allo sviluppo sia privilegiato l'impiego di beni e servizi prodotti nei paesi e nelle aree in cui si realizzano gli interventi". Sarebbe forse stato opportuno anche un riferimento alla Convenzione di Parigi che fornisce indicatori quali l'armonizzazione delle procedure di erogazione dei fondi. C'è anche un altro punto positivo: il concetto di unitarietà. Anche se non è chiaro in che modo poi si farà questa coerenza delle politiche. Mi rendo conto che la legge è in itinere e sono certa che molte lacune saranno colmate.
C'è stata una polemica sui fondi privati. C'è chi teme una «privatizzazione» dell'aiuto allo sviluppo.
Nella legge delega c'è un forte riferimento ai fondi privati, ma non sta a noi dire se sia una scelta positiva o meno. La domanda vera riguarda la risposta ai cittadini italiani. Se i fondi sono pubblici, sulle scelte rispondono governo e parlamento. Se sono privati? E' un nodo che resta forse da sciogliere.
Qualcuno trova la legge troppo «bilateralista».
Credo che si debba tener conto delle scelte del governo che sono evidentemente orientate in senso multilaterale. Non credo ci sia il rischio di un eccesso di cooperazione bilaterale. Naturalmente è importante indicare i mezzi, la quantità, la qualità, la coerenza degli interventi. Una strategia dunque nella quale, ci auguriamo, trovino un riferimento forte e puntuale gli Obiettivi del Millennio.
* Lettera22
Non è troppo tardi per salvare la terra
Cinzia Gubbini
Inviata a Nairobi Alla conferenza che ha tenuto ieri mattina nel tendone allestito dalla Caritas internazionale (una vera potenza in questo social forum) il premio Nobel per la pace Waangari Maathai ha emozionato tutti, raccontando la parabola dell'uccellino che non scappa di fronte al grande incendio, mentre tutti i grandi animali se la danno a gambe. «Con il suo piccolo becco andava e veniva dal fiume, per spegnere il fuoco. Gli altri, gli animali potenti, lo scoraggiavano: che puoi fare tu così piccolo? E lui rispondeva: "faccio il meglio che posso". E questo è quello che dovremmo dire anche noi tutti i giorni». Maathai ha cominciato così la sua battaglia ambientalista con il Green belt movement: piantando alberi, uno dopo l'altro, un'azione piccola ma dirompente. E non ha mai smesso: oggi pomeriggio ha organizzato una cerimonia in cui verranno piantati degli alberi.
Dottoressa Maathai, cosa pensa dei cambiamenti climatici che si stanno registrando nel mondo? Proprio in questi giorni l'Europa del nord è stata colpita da un violento uragano che ha fatto molti morti e provocato il naufragio di una petroliera.
E' molto difficile capire se i fenomeni che si registrano nel mondo siano da addebitare al 100% ai cambiamenti climatici. Per molto tempo non c'è stato consenso tra gli scienziati su cosa stia accadendo. Alcuni sostengono che è tutto normale: accade periodicamente che ci siano dei cambiamenti climatici e dunque non c'è nulla di cui preoccuparsi. Ma ormai la maggior parte degli scienziati è d'accordo nel segnalare che questi cambiamenti sono accelerati da quando è iniziata la rivoluzione industriale. Nel film realizzato da Al Gore, negli Stati uniti, vengono mostrati dei grafici che esemplificano come il clima sia cambiato negli ultimi 300 o 500 anni. Secondo la maggior parte degli scienziati, ormai, è evidente che le attività umane stanno causando dei mutamenti troppo veloci, e che le conseguenze sul nostro pianeta saranno gravi: già oggi ci sono casi in cui nevica ad agosto, al polo si riducono i ghiacciai, un fenomeno che possiamo osservare andando sul monte Kenya, dove si sta sciogliendo il ghiacciaio mentre alcuni fiumi straripano. I periodi di siccità, inoltre, si allungano sempre di più. Sono fenomeni sotto gli occhi di tutti.
Il punto è se i danni causati sono irreparabili o meno. Lei cosa ne pensa?
Molte persone ritengono che si possa ancora fare qualcosa. E io ci credo. Ma è complicato convincere le persone a muoversi. La gente sa tutto su queste cose, è d'accordo, dice che vorrebbe fare qualcosa. Ma non reagisce a meno che non si trovi in mezzo alla catastrofe. Lo stesso si può dire dei governi.
Gli Stati uniti non hanno ancora adottato il protocollo di Kyoto, riducendone nettamente l'impatto. Cosa si può fare per convincerli?
Credo che vedremo molto presto dei cambiamenti importanti in America. Quando sono stata negli Stati uniti ho avuto la sensazione che ci sia una grande coscienza, una grande mobilitazione. In paesi come il Kenya le persone vedono alberi bellissimi, la natura rigogliosa, pensano che non stia accadendo nulla, finché non arriva qualche catastrofe. Gli americani saranno anche grandi consumatori, ma hanno contemporaneamente un grande livello di analisi e coscienza. Durante la conferenza sul clima che si è tenuta qui a Nairobi, gli Stati uniti sono stati piuttosto silenziosi. Non so esattamente per quale motivo, forse stanno aspettando di vedere cosa accadrà entro il 2012, ma secondo me il governo è consapevole che la maggior parte della popolazione vorrebbe che gli Usa appoggino Kyoto. Forse non accadrà finché Bush è alla presidenza. Ma poi, ne sono certa, le cose cambieranno. Detto questo, credo che il problema rimanga cosa abbiano intenzione di fare gli altri paesi: se l'America sbaglia, ciò non impedisce agli altri di imboccare la strada giusta.
A che punto è il movimento ambientalista africano?
Credo che non ci sia una grande coscienza in Africa sul collegamento tra degrado ambientale e cambiamenti climatici. C'è invece una fortissima coscienza della necessità di proteggere l'ambiente e la natura. Anche a livello governativo, ad esempio qui in Kenya, c'è tradizionalmente questo tipo di preoccupazione. Ma io credo che i governi non facciano ancora abbastanza per mobilitare le comunità, e soprattutto per investire in energia alternativa: qui in Kenya il legno è ancora una fonte di energia importante. Significa che si continuano a bruciare troppi alberi.
Al social forum mondiale appare evidente che nei movimenti del sud del mondo le donne hanno un ruolo centrale, che hanno perlopiù perso nel nord. Perché, secondo lei?
E' vero, le donne sono una risorsa essenziale nei movimenti del sud del mondo. Ma io credo che lo siano per necessità: stanno cercando di cambiare veramente la pessima situazione in cui si trovano. Dunque si informano, si cercano, si incoraggiano, vanno avanti. In un forum come questo pretendono che tutti sappiano quali sono le loro istanze. Io credo che la cosa più importante sia esattamente questa: formare delle reti. Perché è in questo modo che si può riuscire a focalizzare degli obiettivi chiari, che possono essere portati avanti incoraggiandosi l'un l'altro.
Eppure alcune campagne non riescono ad avere successo, come quella sulla cancellazione del debito, altro grande tema del forum. Perché?
I cittadini non sanno nulla del debito: quelli del nord pensano che ci siano stati prestati dei soldi, e che ora non li vogliamo restituire. Per questo mi piace il termine «debito illegittimo» e vorrei che lo chiamassero tutti in questo modo. Certo, sarebbe fantastico se un governo africano decidesse di non pagare più: ma non lo faranno perché sarebbero puniti. Oltre al fatto che alcuni stati non vogliono accettare le condizioni che vengono poste quando il debito viene cancellato, e non per nobili motivi, ma perché hanno paura che non avrebbero più i soldi per comprare le armi o mantenere se stessi. Ma nel processo per eliminare questa enorme ingiustizia sono fondamentali anche i movimenti del nord. Noi, dal sud, dobbiamo fare pressione sui nostri governi. Ma voi, del nord, dovete essere coscienti che il debito uccide e dire con chiarezza che non volete soldi sporchi di sangue.
I paradossi della cooperazione
Michele Nardelli
Ha ragione Giulio Marcon (il manifesto 13 gennaio) nel felicitarsi del fatto che avremo finalmente una nuova legge sulla cooperazione internazionale a fronte di una normativa del secolo scorso. E ad auspicare che sia una buona legge. Per farlo però non serve un semplice ammodernamento del vecchio impianto legislativo. Quel che occorre è un «salto di paradigma».
E invece ho l'impressione che le proposte di legge in circolazione siano ancora segnate dalla logica dell'«aiuto allo sviluppo», il che significherebbe disegnare una legge fuori dal tempo, incapace di tentare qualche risposta alla crisi profonda in cui versa la cooperazione internazionale.
Il paradosso è questo. Nel momento in cui più forte che mai è la consapevolezza della globalizzazione e tocchiamo con mano i meccanismi dell'interdipendenza, viviamo il momento più alto di crisi della cooperazione internazionale. Tale crisi non è data, come in genere si ritiene, dal taglio dei fondi nazionali o del sistema delle Nazioni unite, e nemmeno dal perverso connubio fra intervento bellico e «circo umanitario». La crisi della cooperazione riguarda i suoi «fondamentali», il suo presupposto teorico.
E' cambiato il mondo e si continua a ragionare come se questo fosse ancora diviso fra nord e sud, fra sviluppo e sottosviluppo. Prima ancora della mancanza di strategie, la cooperazione internazionale sembra incapace di leggere il presente.
La nuova geografia planetaria, l'economia mondo, ci indica che i luoghi cruciali dell'accumulazione finanziaria sono le aree di massima deregolazione: le guerre, i traffici criminali (dalle scorie nucleari agli esseri umani), le nuove schiavitù. L'internazionalizzazione delle produzioni e la delocalizzazione delle imprese ci raccontano di paesi che conoscono una crescita travolgente grazie soprattutto alla sistematica violazione dei diritti umani e dei lavoratori e a forme di controllo neofeudale dei territori. Chi è dunque sviluppato e chi sottosviluppato?
L'idea della «cooperazione allo sviluppo» ha come presupposto che ci siano paesi «rimasti indietro»: si tratta di una lettura economicista e sostanzialmente neocoloniale («insegnare a pescare», ci dicevano...), che non corrisponde alla realtà.
Forse andrebbe ripensato il concetto stesso di cooperazione intesa come trasferimento di risorse, a partire dalla semplice considerazione che non esistono paesi poveri (impoveriti semmai), che ogni paese è ricco di suo, di culture e saperi prima ancora che di risorse materiali (spesso motivo di impoverimento e di aggressione), e che la frontiera di una nuova cooperazione dovrebbe riguardare il sostegno ai processi di riappropriazione da parte delle comunità locali di tali risorse, il che implica una capacità tanto di riconoscerle che di partecipazione e di autogoverno.
Allora non è solo o tanto un problema di maggiori investimenti nella cooperazione, smettendola peraltro con la contabilizzazione del debito o delle operazioni militari dette umanitarie in questa voce: serve una modalità diversa di fare cooperazione basata sulle relazioni piuttosto che sugli aiuti.
Questo investe anche il nodo dell'autonomia progettuale, tanto della cooperazione governativa quanto del sistema delle Ong. Gli uni e le altre hanno il problema di ricostruire un loro pensiero, cui far seguire la ricerca dei fondi per operare. Non possiamo nasconderci che la crisi della politica e la cultura dell'emergenza hanno fatto disastri da una parte e anche dall'altra, nel mondo detto non governativo, nell'ossessivo rincorrere bandi che pongono le coordinate entro cui agire. Così le Ong rischiano di perdere la loro autonomia, rinchiuse in gabbie già prestabilite dai donatori, sempre più tecnicizzate e dunque tendenzialmente prive di autopensiero. Gli schemi tecnici impongono tempi di realizzazione che non permettono la conoscenza approfondita dei territori nei quali si opera anche perché il lavoro di relazione viene trascurato in sede progettuale e di finanziamento. Producendo insostenibilità.
Limitarsi ad agire sugli ingorghi ministeriali in termini di finanziamenti e competenze, arrivando tutt'al più alla legittimazione di una pluralità di attori della cooperazione, può servire ma non aiuta certo a «cambiare rotta».
Una nuova legge sulla cooperazione internazionale dovrebbe cercare uno sguardo diverso in un tempo cambiato, pensando alla cooperazione come sostegno ai processi di autosviluppo, valorizzando le relazioni territoriali e le esperienze di cooperazione fra territori, cogliendo le straordinarie potenzialità di comunità che si mettono in gioco in uno spazio aperto. Prossimità (conoscenza), reciprocità (comunità di destino) ed elaborazione del conflitto (una lettura condivisa di ciò che è accaduto) sono le parole chiave che dovrebbero segnare quel salto di paradigma che si richiede alla cooperazione internazionale.
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