Vane parole d’ordine percorrono l’Italia. Dialogo, ascolto, non lasciare alla destra temi come la sicurezza, no e poi no all’antipolitica. Indicazioni giuste, ammonimenti necessari. Che, tuttavia, ogni giorno vengono oscurati o travolti da pulsioni che spingono in altre direzioni o che inducono a dare risposte frettolose, e sbagliate.
Sul dialogo insiste con giusta determinazione il Presidente della Repubblica. Ma i suoi margini si assottigliano sempre di più. La debolezza numerica della maggioranza e la bassa capacità di gestione del Governo hanno rafforzato nell’opposizione la convinzione che non sia tempo di aperture e che, spallate o non spallate, ogni occasione debba essere colta per mettere in difficoltà, o addirittura liquidare, il Governo. Una resa dei conti: dunque la cosa più lontana da un dialogo, per il quale, sul terreno politico, le difficoltà sembrano quasi insormontabili, come conferma l’ultimo dibattito parlamentare sulla vicenda della Guardia di Finanza.
Non minori sono i problemi quando si passa alle questioni, di vita, ai temi “eticamente sensibili”. Nel suo messaggio alla Conferenza sulla famiglia, il Presidente della Repubblica, dopo aver ricordato l’eguaglianza raggiunta “con la riforma del diritto di famiglia e altre leggi come quelle sul divorzio e l´aborto”, ha sottolineato che anche le unioni di fatto “vanno concretamente assunte come destinatarie dei principi fondativi della Costituzione senza alcuna discriminazione”, attraverso “il riconoscimento formale dei diritti e dei doveri”. Immediata la risposta del Presidente della Conferenza episcopale, interpretata appunto come disponibilità al dialogo. Attenzione, però. Ogni segnale deve essere valorizzato, ma va pure analizzato per quello che effettivamente è.
Monsignor Bagnasco ha manifestato la volontà di "promuovere, là dove ci sono, veri diritti individuali". Vengono così definiti terreno e modalità del dialogo. Ieri si parlava di “sana laicità”, oggi di "veri diritti". In questo modo, uno dei due dialoganti si attribuisce il potere di stabilire le “condizioni d’entrata” dell’interlocutore. Ma non ci sono "veri" diritti individuali, che qualcuno pretende di definire unilateralmente. Vi sono i diritti riconosciuti dalla Costituzione, e basta.
Un atteggiamento analogo si era già colto a piazza San Giovanni, al cui ascolto si continua ad invitare. Ma quella piazza va ascoltata fino in fondo, nel senso che bisogna ricordare proprio le parole che hanno concluso il Family Day. E´ stato detto che bisogna sostituire una nuova "antropologia", fondata sulla famiglia, alla logica dei diritti individuali. Non è poco, anzi è la conferma che la vera materia del contendere nasce dal fatto che siamo di fronte ad una volontà sempre più dichiarata di riscrivere la tavola dei valori costituzionali, questa volta espressa nella forma di una sostituzione della logica "comunitaria" a quella dei diritti delle singole persone.
Prima vittima di questa iniziativa sembra ormai essere la proposta del Governo sui Dico, peraltro assai claudicante. Ma il prossimo obiettivo è già indicato: la legge sul testamento biologico, arbitrariamente presentato come un passo verso l’eutanasia. E il Family Day non ha soltanto reso più acuto il conflitto sui valori. Sta producendo un nuovo soggetto politico, al quale si annuncia l’adesione dei parlamentari teo-dem, rendendo così ancor più arduo il dialogo, dal momento che la sopravvivenza del Governo, la tenuta della maggioranza saranno fatalmente subordinate alle condizioni poste da questi gruppetti, minoritari ma indispensabili.
La sottolineatura delle difficoltà non può essere liquidata come volontà di ostacolare il confronto, come espressione di intransigente laicismo. Al contrario. Si potrà dialogare davvero solo se tutte le posizioni saranno chiare, se il netto punto di vista della Chiesa avrà di fronte a sé atteggiamenti altrettanto chiari da parte dei suoi interlocutori, se diverrà manifesta la logica che deve ispirare l´azione dello Stato. Le contorsioni degli ultimi tempi sono il segno d´una cultura debole, dalla quale discende una politica inadeguata.
Arriviamo così al punto dolente dell´antipolitica. Giustissimo non alimentare populismo e qualunquismo (però, per favore, non tiriamo sempre in ballo l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, che era cosa del tutto diversa), non fare di tutt´erbe un fascio. Ma da troppo tempo queste giuste preoccupazioni si traducono nel silenzio colpevole su fenomeni inammissibili in un sistema democratico, nell´accettazione di una moralità a geometria variabile, nelle smagliature continue della legalità che hanno portato ad un ritorno impressionante della corruzione. L´antipolitica nasce quando la politica perde la capacità di guardare al proprio interno senza compiacenze, quando i ceti dirigenti sono più impegnati nell’autoconservazione che nella ricerca di una trasparente legittimazione pubblica.
Da anni la responsabilità politica è praticamente scomparsa. Quando si censura il comportamento di un politico, la risposta corrente è "non vi è nulla di penalmente rilevante". Così non soltanto si confondono codice penale e regole della politica. Si fa diventare la magistratura l’esclusivo e definitivo giudice della politica, con distorsioni che sono davanti agli occhi di tutti e che non sono il frutto d’una volontà di potenza dei giudici, ma delle dimissioni della politica da uno dei propri, essenziali compiti. Un establishment che voglia davvero essere tale, e che voglia conservare credibilità davanti all´opinione pubblica, dev’essere capace di escludere chiunque trasgredisca regole di trasparenza, correttezza, moralità.
Altrimenti si finisce su terreni scivolosi, si diventa prigionieri d’ogni contestazione, si riduce tutto solo ad una questione di taglio di spese, sacrosanto per molti versi, ma che può perfino produrre inefficienze maggiori di quelle che si vorrebbero eliminare. Non si abbia pausa della trasparenza e della severità. Da qui, e solo da qui, può partire una possibile salvezza.
La buona cultura, come unica via verso la buona politica, dev’essere invocata anche nella materia della sicurezza, cominciando con qualche distinzione. La criminalità "predatoria", che determina insicurezza, è cosa ben diversa dall’affiorare di un terrorismo strisciante, e entrambi questi fenomeni non possono oscurare il tema cruciale della radicale caduta della legalità. D´accordo, prestiamo la dovuta attenzione alle lettere ai giornali. Ma dovremmo anzitutto domandarci le ragioni per cui lo straordinario successo del libro di Roberto Saviano non è stato accompagnato da nessuna significativa reazione istituzionale. Il passaggio di poteri dalle istituzioni pubbliche alle organizzazioni criminali è ormai fatalisticamente archiviato, sì che possiamo tranquillamente occuparci dei problemi legati alla localizzazione di un campo rom?
Diciamo pure che il bisogno di sicurezza non è di destra, né di sinistra. Ma sono molto diversi i modi in cui si "produce" e si governa questo bisogno. Proprio perché la legalità è cosa tremendamente seria, non può essere ridotta solo a questione di ordine pubblico, peraltro rilevante. Nei documenti di alcuni sindaci compare la consapevolezza di una strategia complessiva, che va dagli interventi sociali all´integrazione culturale e politica. Questa è la via maestra verso una sicurezza che non solo non smantella le garanzie, ma le fa penetrare più profondamente nella società con benefici per tutti. Altrimenti prepariamoci alla società della sorveglianza, dove la sicurezza è di destra perché insidia la democrazia.
Distinguendo pazientemente, chiarendo punto per punto, si creano le condizioni del dialogo. Che, tuttavia, sono negate da un linguaggio che descrive città assediate da nuovi barbari all´assalto della vita e della dignità dell´uomo. Per fortuna, in tutti i campi vi è chi non lancia anatemi. E allora cerchiamo i buoni interlocutori, e andiamo avanti.