Soppesata in chiave tecnica, l’inchiesta «Why not» pone due quesiti. Primo, chi debba indagare quando tra i concorrenti dell’ipotetico reato risultino Presidente del consiglio o ministri, essendo commessi i fatti de quibus nell’esercizio delle rispettive funzioni.
Rispondono gli articoli 6 e 11, comma 1, della legge costituzionale 16 gennaio 1989: il procuratore della Repubblica, «omessa ogni indagine», nei 15 giorni dalla notizia, trasmette gli atti al collegio istituito presso il tribunale nel capoluogo del distretto competente. Organo a tre teste. Lo compongono magistrati designati dalla sorte; è rinnovato ogni due anni (articolo 7); ha i poteri che competono al pubblico ministero nonché al gip (inscena incidenti probatori e archivia quando non vi sia materia su cui procedere: articolo 1, legge 5 giugno 1989, numero 219). Questione chiusa, «Why not» finirà lì.
Secondo dubbio: fin dove sia corretto l’atto con cui la Procura generale avoca le indagini qualificando incompatibile l’indagante, perché nei suoi confronti pendono inchieste disciplinari avviate dal ministro che gli eventi istruttori lambivano. Ecco un falso sillogismo. Che il guardasigilli lo persegua, è fatto ambiguo: tra le ipotesi possibili c’è anche quella d’una mossa intesa a spiazzare l’avversario scomodo; aspettiamo l’esito del giudizio disciplinare. Da notare come il requirente non sia ricusabile: diversamente dal giudice, equidistante, è parte, attore pubblico. Infatti accusa: e come potrebbe se non cercasse le prove? I soliti pseudogarantisti deplorano l’accanimento investigativo: chiamiamolo fisiologia del contraddittorio. I processi diventano commedia, piuttosto ignobile, quando requirenti timidi risparmino boiardi, ricchi, confratelli e varie exceptae personae.
Motivata così, persuade poco questa scelta. Già il nome suona male, relitto dei tempi in cui l’apparato requirente, gerarchico, lavorava quale braccio del potere esecutivo. Le avocazioni hanno una lunga storia malfamata e destano sospetti: spesso risultavano fondati. Stavolta la eviterei, non foss’altro perché riesce equivoca; il corso del procedimento era predeterminato; «why», allora, compiere un gesto discutibile? L’argomento richiedeva poche parole ma il discorso rimarrebbe monco se non toccassimo due punti. Primo, valgono ancora metri berlusconiani: durano intatte le norme che s’era affatturato il padrone, indecorose, meno due leggi su cui è caduta la scure della Consulta; e aveva radici organiche l’inglorioso epilogo parlamentare del caso Unipol.
Secondo, gli eventi calabresi lasciano intuire cosa sarebbe una giustizia selettiva le cui leve stiano in mano a requirenti comandati dal ministro (lo dicano o no, è quel che chiedono i fautori delle carriere separate, finiremmo lì): intuitus personarum; disturba il governo, diamogli addosso; e tanta disattenzione benevola verso gli amici. L’Italia è moralmente gobba, quindi tagliamole l’abito ad hoc, ripeteva Giolitti scusando le soperchierie elettorali prefettizie nel meridione. Lui, uomo d’inesorabile onestà.