Le chiamano archistar. Volteggiano fra aeroporti, molti dei quali hanno progettato, saltano da Occidente a Oriente, dal Pacifico all’Atlantico. Megalopoli e piccole città. Centri antichi e new towns. Ovunque possibile lasciano il marchio, una firma flessuosa e svolazzante. L’architettura come brand. La definizione di archistar, munita persino di copyright, si deve a due studiose italiane, Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli. Di archistar, di quegli architetti «che costeggiano i canali della moda, del design, dello spettacolo, del marketing e spesso cercano una scorciatoia verso una posizione riconosciuta, che li esima da una continuazione della ricerca», scrive Leonardo Benevolo, fra i padri riconosciuti della moderna urbanistica.
Contro le archistar e il loro sistema si scaglia Franco La Cecla, cinquantasettenne palermitano, architetto di formazione che poi ha virato verso gli studi antropologici (insegna al san Raffaele di Milano e al Politecnico di Barcellona, è stato professore a Parigi e a Venezia) e che ora ha scritto un pamphlet dallo stile impertinente e veloce che si intitola Contro l’architettura (Bollati Boringhieri, pagg. 117, euro 12). La Cecla ha lavorato con Renzo Piano e poi ha fondato un’agenzia per valutare l’impatto sociale delle opere di architettura, ciò che succede in una città in cui avviene una trasformazione urbana. Ed è stato impegnato in contesti molto diversi, da Tirana a Barcellona.
La Cecla, chi sono le archistar?
«Artisti al servizio dei potenti di oggi. Sono grandi, abilissimi professionisti addetti a stabilire trends, a stupire e richiamare il grande pubblico con trovate che hanno pochissimo di un edificio e moltissimo invece a che fare con una messa in scena. Costruiscono enormi cartelloni pubblicitari sedotti da un foglio accartocciato».
Lei si riferisce a Frank Gehry che, nel film a lui dedicato da Sidney Pollack, entra nello studio, appallottola un foglio di carta e dice ai suoi: «Voglio questo»? Il Gehry del Guggenheim di Bilbao?
«Così si vaporizza l’architettura, che diventa una specie di cipolla, solo strati, superfici e niente spazio: è più importante il packaging che non il prodotto. L’architettura è ridotta al rango di tessuto, perde la volumetria. Jean Nouvel promette superfici leggere, vetrate impalpabili, come a dire che l’architettura è solo bidimensionale, deve entrare nelle pagine di una rivista patinata».
Jean Nouvel e Frank Gehry sono considerati due fra i massimi architetti contemporanei.
«Sarà pur vero. Ma per quanto riguarda Gehry vada a leggere cosa scrive John Silber».
Silber è un critico?
«No, è un profano, ma è il rettore della Boston University. Ed è cliente di Gehry, il quale realizzando lo Stata Center, il cuore delle indagini scientifiche all’Mit, avrebbe, secondo Silber, completamente ignorato le esigenze dei ricercatori, inscatolati in spazi comuni, tutti trasparenze e lavagne curve, mentre quel tipo di procedimenti e di studi esigevano una certa intimità, compresa la possibilità di chiudersi una porta alle spalle».
Come ha reagito Gehry?
«Si è molto risentito. D’altronde ad architetti come lui importa poco che la gente non accetti. Ci si traveste subito da geni incompresi. È accaduto per Massimiliano Fuksas, al quale era stato chiesto, progettando il padiglione per il mercato di Porta Palazzo a Torino, di prevedere delle porte scorrevoli. Ma non c’è stato nulla da fare: l’opera d’arte è intangibile».
Torna il paragone con gli artisti?
«Le archistar sono artisti, ma in un senso rinnovato. L’architetto è un "trend setter", uno che lancia una tendenza. Rem Koolhaas ha aperto nuove direzioni al marketing di Prada. È diventato un guru di atmosfere, non ha fornito solo involucri, ma anche uno spirito tutto nuovo all’azienda di moda. L’archistar non lavora solo per la moda, diventa moda egli stesso, diventa logo, garanzia per poter firmare un negozio, ma anche un museo o un pezzo di città».
Rem Koolhaas non è solo moda.
«Assolutamente no. È forse lui che ha inventato la nuova maniera di essere architetti. È il più colto di tutti. Parla del capitalismo globale come Toni Negri. L’ho visto commentare accoratamente le scene di un caterpillar che demoliva le misere stamberghe di una bidonville con tanta gente che faceva appena in tempo a fuggire dalle baracche. Ma contemporaneamente costruisce grattacieli a Dubai, dove nella più totale ingiustizia distributiva e nella più ideologica imitazione dell’Occidente, si innalzano villaggi avveniristici, milioni di tonnellate di cemento per fare una Malibu nel Mar Rosso. Koolhaas usa la vecchia arma del "siamo realisti": visto che il mondo è così lasciate almeno che io lo descriva».
F orse l’architettura è pressata da corposi interessi - costruttori, immobiliaristi, grandi investitori. Deve contribuire a produrre profitti. Lei che dice?
«È vero, ma queste ragioni non spiegano tutto. Ci sarebbe da aspettarsi maggiore autocritica e invece è tutta una corsa ad accaparrarsi committenze in ogni angolo del pianeta».
Lei scrive che l’architettura non fa i conti con l’abitare, che «non sa nulla di quell’essenza propriamente narrativa di cui gli spazi sono fatti».
«Prenda l’esempio di New York. Mai come in questi anni a Manhattan si parla di architettura. Lavorano grandi architetti, da Renzo Piano a Gehry a Libeskind. Ma tutta questa effervescenza c’entra poco con la città, è un dibattito di vetrina che risponde alla trasformazione di Manhattan in un "marchio", in una piattaforma costellata di monumenti da consumare come l’intero sistema di shopping a cui New York sembra pericolosamente ridursi».
L’architettura non produce il senso della città, lei aggiunge, non crea le caratteristiche di attrattiva, di mescolanza, di urbanità...
«Caratteristiche che rivivono nel Bronx, mentre tramontano a Manhattan. Nel Bronx si trovano magnifiche architetture déco, boulevards, ma soprattutto un attaccamento al luogo rielaborato dalle comunità che vi erano e che vi sono insediate. Nulla di speciale, per carità, ma nel Bronx c’è più spazio pubblico di quanto ne abbia prodotto qualsiasi scatola di vetro e latta costruita a Manhattan».
È la seduzione dei luoghi di cui parla lo storico dell’architettura Joseph Rykwert?
«Secondo Rykwert, l’architettura può ancora essere il punto d’incontro di coloro che vogliono costruire una città più giusta. Ma altrove lo stesso Rykwert indica nell’incapacità di produrre simboli condivisi la principale carenza dell’architettura contemporanea. E fa anche un esempio specifico: il concorso per costruire a Ground Zero, la povertà di idee offerta anche da uno come Daniel Libeskind. Non si può immaginare che l’unico modo per aggregare una città ferita sia un banale "costruiamo come prima e più in alto ancora"».
A proposito, che cosa pensa dei tre grattacieli che dovranno sorgere a Milano nell’area dell’ex Fiera, uno dei quali firmato da Libeskind?
«Sono l’esempio di un’architettura autoreferenziale, che si cita reciprocamente. Sono un prodotto glamour, l’unico che si sia in grado di realizzare in una città che sembra una città di provincia».
Lei ha lavorato a Barcellona, chiamato da Josep Acebillo che dirige il piano per le trasfomazioni della città. Da quell’esperienza ha ricavato un’impressione contraddittoria. Perché?
«Barcellona attrae per la sua singolare maniera di vivere, per la socialità densa che esprime. Ricordo interi pomeriggi passati ad ammirare la semplicità dell’arredo urbano, la manutenzione di panchine e muretti, che erano uno dei punti di forza del piano di Oriol Bohigas. Ora la città sembra tornata a vecchie forme di nazionalismo catalano. Credo non ne possa più di quel cosmopolitismo che si è realizzato negli ultimi decenni e che i giovani di tutto il mondo ancora vanno a cercare».
Troppo turismo?
«Barcellona è visitata da cinquanta milioni di persone ogni anno. Si è superato un limite. E la città funziona in modo schizofrenico: la parte antica è un tritacarne di turisti, la parte ottocentesca ha alzato barricate contro i turisti. Non si è realizzato lo sposalizio fra le due anime. I risultati di quanto fatto in questi decenni sono ben visibili e di splendida qualità. Ma anche Barcellona rischia di diventare un logo. E se una città si trasforma in un logo è meglio andare a vivere altrove».