Partire da sé per cambiare il mondo. L'Onda, rispetto ai più recenti movimenti studenteschi, è anomala anche per questo. Leggendo i documenti finali approvati domenica dall'assemblea plenaria degli atenei in lotta dopo due giorni di dibattiti alla Sapienza di Roma, una cosa appare chiara: il filo rosso che tiene insieme l'attacco alla legge 133 con la critica all'attuale modello di società, che lega welfare e diritto allo studio, non ha nulla di ideologico. È il portato di un vissuto personale, di un'esperienza corporea prima ancora che intellettuale.
Un movimento che non ama lo status quo e mette in chiaro fin dalle prime righe del documento che «gli unici alleati del governo all'interno del mondo della formazione sono in realtà quei baroni che a parole si dice di voler combattere». L'analisi delle facoltà in mobilitazione comunque non può che partire dalla critica ai «processi di aziendalizzazione e privatizzazione dell'università» e ai «tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla formazione» impartiti dall'attuale governo che, «dopo quindici anni di pessime riforme», sono il colpo definitivo al sistema pubblico dell'istruzione. Vanno perciò abolite subito le lauree del 3+2, il numero chiuso e la frequenza obbligatoria. Ma «non vanno dimenticate le responsabilità di chi l'università ha gestito con meccanismi corporativi e clientelari», di chi «soffoca la ricerca con la gerarchizzazione» e fonda il suo potere sullo «sfruttamento generalizzato del lavoro precario». Difendere «l'istruzione pubblica, gratuita, senza blocchi di accesso e con una didattica più qualificata» significa innanzitutto reddito garantito diretto e indiretto e accesso ai consumi intellettuali. E significa anche difendere l'indipendenza e l'autonomia della ricerca che non può essere subordinata alle logiche di mercato. Per questo occorre ripensare «un nuovo concetto di valutazione»: non più «legato al contenimento del bilancio, alla produzione di brevetti o al semplice numero delle pubblicazioni», deve invece calarsi «nei contesti territoriali in cui le università sono inserite». Ai finanziamenti, che devono raggiungere almeno i livelli indicati dal Trattato di Lisbona (3% del Pil contro l'attuale 1%), deve essere permesso l'accesso incondizionato anche ai ricercatori non strutturati e ai dottorandi. Che sono proprio le figure più "fragili" di tutto il sistema universitario: sfruttati per lavori non pagati, per attività che non competono loro e al servizio dei baroni, chiedono di entrare a pieno titolo negli organi decisionali, a cominciare dalle commissioni di valutazione. «Al lavoro di ricerca deve corrispondere un salario adeguato e diritti stabiliti nello statuto dei lavoratori», scrivono. Vanno aboliti i «dottorati senza borsa» e va istituito un «contratto unico di lavoro subordinato una volta terminato il dottorato, di durata non inferiore ai due anni: esso deve sostituire l'attuale giungla di contratti precari». A questo proposito, si apprestano a preparare «una grande inchiesta sul lavoro precario nell'università», che fa il paio con il censimento dei precari negli enti pubblici di ricerca indetto dagli studiosi della cognizione del Cnr (http://laral.istc.cnr.it). E poiché «il lavoro di ricerca prevede la mobilità come elemento irrinunciabile, ma continuamente ostacolato dalle differenze dei diversi sistemi nazionali», propongono la convocazione di una riunione europea che metta in circolo le diverse vertenze sviluppate dai movimenti di studenti e ricercatori precari nel resto del continente». Last but not least, la questione di genere: «Da una parte - scrivono nel report del workshop organizzato dalla facoltà di Fisica - la progressione della carriera delle donne è fortemente filtrata ai livelli più bassi, dall'altra le donne subiscono il perenne ricatto biologico, aggravato dalla precarietà, per cui la maternità diventa la via di espulsione dal mondo della ricerca».
Un movimento che si vuole «irrappresentabile» e che sa che «il cambiamento non è delegabile», e «va agito anche nel conflitto», si pone fin da subito l'obiettivo di «superare qualsiasi forma di rappresentanza interna». Anche l'autoriforma dell'università - sottolineano - «non è un tentativo di burocratizzazione» ma «è invece l'apertura di un processo che già vive nelle pratiche del movimento». Da verificare, semmai, la capacità di tradurla «da subito in concreti elementi di programma e di agenda politica». Una scelta di metodo nel rispetto dell'anomalia. Non a caso l'Onda «si sente vicina ai movimenti territoriali, quelli a difesa dei beni comuni, dell'ambiente, contro le guerre e le grandi opere - spiega Giorgio Sestili, del collettivo di Fisica - perché sono gli unici, dal 2004 ad oggi, ad aver saputo costruire una reale opposizione ai governi, anche di centrosinistra». Autonomi e indipendenti da sigle sindacali e partitiche. E come loro capaci di interrogarsi sulle cause e le possibili vie d'uscita dell'attuale crisi economica per fronteggiare la quale si giustificano tagli indiscriminati e privatizzazioni. Ma l'Onda guarda anche alle lotte dei lavoratori: «Da subito abbiamo guardato alla Francia e ci siamo posti l'obiettivo di creare forti alleanze con lavoratori, immigrati, donne: da soli gli studenti non possono inceppare il meccanismo della produzione».