Anticipiamo un brano del saggio di "La legge e la sua giustizia" (il Mulino, pagg. 419, euro 30)
La giustizia costituzionale è un’acquisizione recente del diritto costituzionale. Eppure l’esigenza e i tentativi di difesa della Costituzione sono antichi come la riflessione sui problemi dell’umana convivenza politica. Possiamo assumere come archetipo le considerazioni di Platone sui custodi delle leggi fondamentali, i nómoi della città, ch’egli considerava non come strumenti del potere dei più forti (come facevano i sofisti), ma come scienza e filosofia applicate alla società bene ordinata. Nello Stato perfetto, nel quale sorgesse «un re quale s’ingenera negli alveari, uno che di corpo subito appaia superiore e d’anima», a questo re occorrerebbe affidarsi, alla sua scienza e saggezza, e non a rigide leggi, che non sanno adattarsi all’irriducibile varietà della vita:
«Sotto un certo riguardo senza dubbio è chiaro che la legislazione è parte dell’arte regia; meglio di tutto però non è che abbiano vigore le leggi, ma che lo abbia l’uomo il quale per la sua intelligenza sia regio. E sai perché? Perché la legge non può mai, abbracciando ciò che è ottimo e giustissimo, prescrivere nello stesso tempo con precisione ciò che è il meglio per tutti. Giacché le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il non rimanere giammai, per così dire, in quiete nessuna delle cose umane, non permettono che alcun’arte possa per alcuna cosa indicar nulla di semplice che serva a tutti i casi e in tutti i tempi (...) Ora, la legge, noi vediamo che suppergiù tende proprio a questo, come un uomo prepotente e ignorante e che a nessuno non lascia far nulla senza il suo ordine, anzi non permette nemmeno che altri lo interroghi, nemmeno se a qualcuno venga in mente un partito nuovo, migliore e differente dalla disposizione che egli aveva imposta».
Poiché, però, accade che un simile re-filosofo, dotato di virtù politiche, non sempre, anzi quasi mai, esiste, «è pur necessario che i cittadini adunatisi scrivano delle leggi, seguendo le tracce della forma di governo più vera tra tutte». Da qui, dall’imperfezione dei governanti, deriva la necessità delle leggi e, per conseguenza, la necessità che le leggi siano rispettate: le forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - saranno tanto migliori quanto più sarà garantito questo rispetto. Proprio al termine e quasi a coronamento delle Leggi, leggiamo:
«Nel nostro Stato ci deve essere un Consiglio formato di dieci custodi delle leggi, sempre i più anziani, coi quali devono adunarsi tutti quelli che hanno ottenuto il premio di virtù; v’interverranno inoltre coloro che sono andati all’estero allo scopo di apprendere qualche cosa che possa essere utile all’opera di vigilanza esercitata sulle leggi, e che, ritornati salvi in patria, saranno ritenuti degni di partecipare al Consiglio, in seguito ad esame a cui saranno sottoposti dagli altri membri; abbiamo aggiunto che ciascuno deve prendere con sé un giovane, d’età non inferiore ai trenta anni, e proporlo agli altri, dopo che egli stesso avrà giudicato che il giovane è meritevole, per indole e per educazione, d’essere ammesso; e se anche agli altri parrà tale, lo ammetteranno; in caso contrario, il giudizio dato deve rimanere celato così agli altri come, e soprattutto, a colui che è stato respinto; che infine le riunioni devono tenersi di buon mattino, quando ognuno è maggiormente libero dagli altri affari, sia privati che pubblici (...) Se facciamo di questo Consiglio come l’ancora di tutto lo Stato, questa ancora, fornita di tutto ciò che si conviene, ci conserverà tutto quello che noi vogliamo».
Chi, a qualunque titolo, ha a che fare con la giustizia costituzionale deve conoscerne le antichissime e profonde radici di storia spirituale, delle quali il passo appena citato, ricco di dettagli e sfumature, è una testimonianza.
Continuiamo ancora un poco con le Leggi di Platone:
«Se la costituzione del nostro paese deve essere compiuta e perfetta, bisogna che tra i suoi istituti ve ne sia qualcuno che sia in grado di conoscere, in primo luogo, questo scopo, di cui parliamo, quale sia, cioè il fine politico che noi ci proponiamo; in secondo luogo, in qual modo questo scopo si debba raggiungere, e quali siano innanzitutto le leggi e poi le persone che potranno a tal fine riuscire utili o no. Se uno stato manca di questo, nessuna meraviglia se, essendo privo di intelligenza e di sensi (riferimento a un passo precedente in cui si parla di intelligenza e sensi come elementi di conservazione degli esseri viventi), procederà ogni volta a caso in tutte le sue azioni (...) Bisogna che questo Consiglio, come il presente nostro discorso sta a dimostrare, possieda tutte le virtù, delle quali principale è quella di non andar vagando, prendendo di mira molte cose, ma di guardare a una sola, rivolgendo sempre, per così dire, tutti i dardi verso di essa».
Questa virtù politica somma è la sintesi di «fortezza, temperanza, giustizia, prudenza», tutte attitudini a garanzia di «ciò che vogliamo conservare». Le garanzie della Costituzione che nel corso dei secoli sono state immaginate esprimono in tutti i contesti la radicata aspirazione a stabilizzare le regole fondamentali della convivenza politica (l’ancora dello Stato) e a difenderle dalla minaccia che viene dalla decisione abnorme imprevista. Per apprestare questa difesa, occorrono uomini dotati di fortezza, temperanza, giustizia e prudenza.
Queste proposizioni indicano la vocazione della giustizia costituzionale: la conservazione dell’essenziale. La sua prima realizzazione pratica sembra essere stata quella della nomothesía, un’istituzione dell’Atene del IV secolo a. C., che si fa risalire, però, a Solone, di cui v’è menzione in Demostene, Eschine e Andocide. La critica storica è incerta su numerosi aspetti di questa istituzione, in particolare circa il suo rapporto con l’assemblea popolare legislativa, ma c’è concordia nel ritenere che i nomoteti, nominati ad hoc con deliberazione dell’assemblea, avessero un potere di controllo sulle proposte di leggi innovative (psephísmata), per la difesa delle leggi antiche (nómoi). Il loro potere di controllo si esercitava quando si trattava di modificare o di abrogare una legge esistente, o di introdurne di nuove, e consisteva nel valutarne la compatibilità con il diritto precedente. Era dunque una funzione di freno e stabilizzazione, una funzione che appartiene all’essenza della garanzia costituzionale. Del resto, una funzione di questo genere si svolgeva anche nell’assemblea legislativa, espletata da un comitato di cinque sinègoroi (avvocati pubblici, difensori della legalità), eletti allo scopo di preservare il diritto tradizionale. Nel procedimento legislativo, dunque, trovava un suo posto definito il dibattito circa il rapporto fra antico e nuovo, al fine di difendere il primo contro gli attacchi scriteriati del secondo. In questa dialettica, il nómos prevaleva non tanto in quanto «superiore», ma in quanto «anteriore»: oppure, se così si vuol dire, la sua stessa durata lo rendeva venerabile agli occhi dei contemporanei e, perciò, in questo senso, superiore.
Se si parla di «funzione conservatrice» di queste procedure, si deve però precisare che questa non deve essere intesa nel senso politico odierno, come nella contrapposizione corrente conservatori-riformatori. La «conservazione» del nómos, di per sé, non significa nulla, a questo riguardo: la conservazione che difende un contenuto innovativo è innovazione dal punto di vista politico, mentre la sua eliminazione può significare un’involuzione conservatrice. Conservazione del nómos significa, dal punto di vista costituzionale, la difesa di quella continuità che è un aspetto della Costituzione stessa, in quanto norma di durata, e che consente di guardare a ogni desiderata condizione futura, che la legge volesse perseguire, con la garanzia e la tranquillità che ciò che è essenziale sarà mantenuto e su questo non si apriranno controversie distruttive. Conservatore e riformatore, applicati alla funzione di garanzia costituzionale oppure alla legislazione, non hanno dunque lo stesso significato.