Incombono le elezioni europee, «sbarrate» dalla soglia del 4%, sulle percentuali di consenso a Berlusconi, sulla frammentazione della sinistra, sulla collocazione internazionale del Pd. Ma non incombe affatto l'idea d'Europa nell'opinione pubblica, né in quegli stessi partiti che già lavorano alla formazione delle liste per il parlamento di Strasburgo. Lanciata sul piano economico e monetario, costruita a metà e a fatica sul piano istituzionale, stroncata dai referendum contro il Trattato costituzionale, l'Unione non decolla nell'esperienza e nella consapevolezza dei suoi cittadini, nemmeno oggi che la crisi economica e sociale imporrebbe una visione almeno macroregionale dei problemi e la svolta obamiana richiederebbe un interlocutore a dimensione continentale da questa parte dell'Atlantico.
La lentezza della costruzione comunitaria non è senza conseguenze: caduti i vecchi confini, all'interno del continente e con il resto del mondo, le nuove linee di contraddizione - migrazioni, diversità culturali, nuove stratificazioni di classe - rischiano di essere interpretate solo sulla base di antichi e nefasti criteri, identitari e razziali in primo luogo. La politica avrebbe potuto, e ancora potrebbe, fare qualcosa di più e di meglio per orientare questo processo di decostruzione e ricostruzione europea? E agendo su quali leve? In Eurollywood Luciana Castellina dimostra che sì, avrebbe potuto e potrebbe, investendo più convinzione e più risorse materiali su un terreno che invece è stato fra i meno coltivati dalla politica europea, quello della cultura.
Recita infatti «il difficile ingresso della cultura nella costruzione dell'Europa» il sottotitolo del libro, che peraltro di questo difficile ingresso, e del seguito, ricostruisce con dovizia di documentazione (e con l'esperienza di ex parlamentare Ue, rielaborata nei corsi tenuti all'università di Pisa) ogni passaggio, dal messaggio scritto da Denis de Rougemont con Bertrand Russell e Lukács al primo congresso europeo del 1948 alla convenzione sulla diversità culturale varata dall'Unesco nel 2005.
Ma prima dei singoli passaggi conta, proprio ai fini della comprensione del processo di costruzione europea, la messa a fuoco del tema. «Cultura» è infatti, notoriamente, un termine vago, che spazia da una concezione archivistico-specialistica a una antropologica, e da una santificazione idealistica a una mercificazione cinica.
E la storia della politica europea della cultura è storia di questo ondeggiamento, che si insinua nello scarto di partenza fra una retorica dell'Europa come culla delle civiltà del pianeta e una realtà fatta di scarsi investimenti, molti ritardi e qualche reazione difensiva all'egemonia che gli Stati uniti solidificano anche in campo culturale dagli anni Cinquanta in poi del secolo scorso. Come non bastasse, a questo scarto di partenza se ne aggiunge negli ultimi decenni un altro: fra l'evocazione della necessità di unire l'Europa e il processo galoppante di globalizzazione che unifica il mondo, per un verso omologandolo, per l'altro fratturandolo secondo linee che non corrispondono alla geografia dei continenti. Che cosa diventa, la «cultura europea», nella nuova spazialità e temporalità del mondo globale?
Il ritardo con cui il tema viene affrontato può diventare perfino regressivo: può solleticare la nostalgia di un'identità compatta mai esistita, arroccata ed escludente (si pensi al dibattito sulle «radici cristiane» dell'Europa), rovesciando nel suo contrario il senso del messaggio che viene sia dal passato remoto sia dal presente del vecchio continente. Tanto le origini - il mito di Europa, il dialogo conflittuale fra eredità ellenica, romana, cristiana - tanto il presente - i confini interni scossi dall''89, le migrazioni dagli ex paesi dell'est e dalle ex colonie - dicono infatti di un'identità non-una, plurima, composita, diasporata e conflittuale, che può abitare il mondo globale non se si reinventa come identità omogenea ma solo se, al contrario, si pone come modello cosmopolita e meticciato; come differenza aperta al differente; come testimone autocritico dei disastri, dal nazismo al colonialismo al nazionalismo, che una nozione forte e autocentrata dell'identità ha prodotto nella stessa storia europea e può di nuovo produrre nella storia del mondo.
Il fatto è però che questa necessaria apertura dell'Europa non coincide e non deve coincidere, per Castellina, con l'autodissoluzione nel mercato e nella forma di merce. Ovvero con la soluzione americana della modernizzazione e della globalizzazione. Che è invece, come il titolo del libro suggerisce, la deriva spontanea verso cui il complesso della produzione e della circolazione della cultura europea tende, in assenza di politiche adeguate a sostenerlo. In questa chiave Castellina ripercorre i conflitti più salienti della politica europea della cultura: da quello sul plurilinguismo a quello sull'«eccezione» europea, da quello sull'industria dell'audiovisivo e del cinema a quello sul copyright , da quello sulla società della conoscenza (Lisbona 2000) a quello sulla società dell'informazione.
In ciascuno di questi casi, non si tratta di «resistere» difensivamente all'americanizzazione - al contrario, l'autrice spinge sempre verso un di più di creatività e di apertura - ma di portare sul terreno della cultura quella «vocazione di critica alla modernità capitalistica» che - sia pure ambiguamente, «assumendo talvolta un carattere rivoluzionario, a volte reazionario», l'Europa ha saputo esprimere sul piano politico, inserendo nella storia vincente del capitalismo i cunei della lotta di classe, della socialdemocrazia, delle costituzioni. Se questo sia ancora possibile dopo l'impronta lasciata dal secolo americano sulla cultura planetaria, e se ci sia un soggetto politico capace di farsi carico di questa impresa in un'Europa in cui, come scrive Maurizio Iacono nell'introduzione al libro, «la sinistra finge di esistere ma è scivolata fra le macerie del muro di Berlino, in parte a causa della sua rigidità, in parte a causa della sua inconsistenza», non è detto e non è certo, ma varrebbe la pena di discuterne in profondità. Se non altro per dare sostanza a liste, simboli, agglomerati elettorali sempre più arbitrari e spettrali.