Dunque Berlusconi ha fatto sapere che è intenzionato a «dire tutto» in Tv, magari a reti unificate, per dimostrare che «è in corso una persecuzione giudiziaria». Si potrebbe osservare che da parecchi anni avrebbe dovuto «dire tutto», e dirlo davanti ai giudici, come sono tenuti a fare tutti i cittadini, innocenti o colpevoli quando sono coinvolti in affari di giustizia. Se volesse, ma purtroppo non nutriamo fiducia, entrare davvero nell´ampio contenzioso che lo contrappone non tanto alla magistratura ma alla Legge, farebbe bene a ripassare l´esaustivo dossier compilato in proposito da Giuseppe D´Avanzo (Repubblica del 18, 20 e 23 us). Il nostro cronista ha squadernato di fronte ai lettori, come reperti di anatomia patologica, il numero dei processi in cui è stato implicato il presidente del Consiglio: 16 e non 106, come l´interessato abitualmente affabula, il loro svolgimento preciso e la loro conclusione, laddove vi è stata. Alla fine ha suggellato l´inchiesta con una "moralità", tratta da Shakespeare, allorquando in "Misura per misura" il potente Lord vicario, rivolto alla donna che lo accusa, esclama, sicuro di sé: «La mia menzogna avrà più peso della tua verità!». Citazione che mi ha convinto solo in parte. Non vi è dubbio, infatti, che il potere abbia contato nei secoli quasi sempre più della verità, tanto che i rari casi di trionfo della giustizia sono stati portati ad esempio per i posteri, come quando Renzo e Lucia riuscirono infine a sposarsi. E pur tuttavia, nella annosa vicenda giudiziaria che inquina l´Italia, c´è qualcosa d´altro che si sovrappone alla eterna prevaricazione del forte sul debole.
La vergogna italiana è più specifica e attuale. Appartiene alla storia recente e senza di essa non si spiega. Si può definire come un generalizzato stravolgimento del senso delle cose, con un agglutinarsi degli opposti, non più distinguibili: il bene e il male, il delitto e l´innocenza, la volgarità e lo stile, e soprattutto, ciò che nella coscienza comune, non solo nel codice, fino a tempi recenti, era vietato e ciò che non lo era.
Il riscontro fattuale di questo fenomeno abbastanza unico, almeno nelle democrazie liberali, emerge nella cosiddetta persecuzione giudiziaria di Berlusconi. Quel che più colpisce è che nei dibattiti televisivi, nelle proposte di buona volontà di chi vorrebbe liberarsi del ricorrente impiccio, togliendolo in qualche modo dall´agenda, in quanti, avendo smarrito ogni logica ispirata alle costituzioni occidentali, blaterano di intangibilità dell´eletto di fronte alla chiamata in giudizio per reati di diritto penale, verificatisi nell´attività privata e non politica degli inquisiti, ebbene in tutta questa casistica ciò che ricorre non è la proclamazione dell´innocenza del reo, ma la denuncia della prevaricazione dei giudici.
Così, non solo per i sodali di stretta osservanza del Cavaliere, ma per i tanti che, pro bono pacis, cercano scappatoie parlamentari ed anche per milioni di elettori che hanno assimilato all´agire pubblico, l´ideologia del tifoso, per cui i propri campioni hanno sempre ragione e vanno sostenuti anche quando segnano un gol con le mani o rubano la partita, avendo corrotto l´arbitro, ebbene per tutti costoro che Berlusconi sia colpevole o innocente sembra non contare più nulla. Del resto Berlusconi stesso non dice mai: «Io sono innocente e lo dimostrerò davanti al giudice!». Il problema centrale non se lo pone neppure. Semplicemente esige di essere sottratto da ogni e qualsivoglia giudizio.
Ha portato in Parlamento i suoi legali perché gli cucinino provvedimenti ad hoc e, quando si è reso conto che neanche questo basta, fa escogitare altre sanatorie. Sarebbe stato più semplice votare all´inizio della Legislatura una legge di poche righe: «Tutti i reati di qualunque tipo, anche ricadenti sotto il profilo del diritto penale, eventualmente commessi prima, durante e (già che ci siamo, ndr) dopo l´esercizio del suo mandato politico dal presidente del Consiglio non sono soggetti ad azione giurisdizionale né possono essere perseguiti in alcun modo».
Cosa è giusto e cosa è ingiusto? Chi è innocente e chi colpevole? Se non siamo più capaci di rispondere a questi elementari interrogativi, tutto il resto è vaniloquio. Certo, tutto questo è cominciato prima di Berlusconi, prima ancora che scoppiasse Tangentopoli.
Quando la democrazia italiana era bloccata dalla guerra fredda e pagava il costo di una indispensabile e salvifico compromesso, perché il Paese non scivolasse verso lo scontro interno sanguinoso e neppure finisse in un regime autoritario di destra, i costi crescenti del funzionamento della macchina politica furono concordemente ripartiti. Gli uni percepivano una specie di Iva illegale su tutti gli affari, in specie quelli pubblici, tradotta in tangenti suddivise in quote di partito; gli altri si alimentavano attraverso i finanziamenti provenienti dall´Urss e con un aggio sull´attività delle cooperative. Gli uomini attraverso cui, a diversi livelli, transitavano i soldi, erano sovente disinteressati e non trattenevano un centesimo per se stessi. Altri non lo erano e lucravano anche personalmente. Cominciò lì a confondersi il concetto di onestà. Al centro e a sinistra il finanziamento illegale non si connotava come immorale. Nell´opinione pubblica prevalse l´idea che erano «tutti ladri», ma anche che il furto era una necessità insita nella politica. Quando crollò il Muro di Berlino andarono ad esaurimento i finanziamenti a sinistra mentre maturava nella stragrande maggioranza di chi sborsava quell´Iva aggiuntiva, dell´inutilità del pedaggio, una volta dissolta la minaccia comunista. I partiti crollarono su se stessi e Tangentopoli si affermò come una grande operazione di pulizia.
Riempiendo un vuoto i magistrati a volte andarono al di là del limite che avrebbero dovuto auto imporsi. Tutti, però, plaudirono, soprattutto a destra ma anche fra gli ex comunisti che si illudevano di averla scampata. Le macerie del cattolicesimo democratico lombardo veneto fecero da concime alla Lega. In tutto il resto d´Italia si affermò in breve tempo l´unico che avesse ancora i soldi, Silvio Berlusconi. Armato dell´arma assoluta delle Tv è assai più forte, convincente, pervasivo degli agit-prop comunisti di un tempo e delle «madonne pellegrine» che li fronteggiavano. Tantissimi italiani si sono convertiti al suo verbo. Così avviene che non ci sia ribellione etica nei confronti di un capo del governo gravato da un´accusa gravissima, già ampiamente provata, quella di corruzione giudiziaria. Sancita non dai cosiddetti «procuratori rossi» ma dalla Corte di Cassazione che nel luglio del 2007 ha confermato la condanna di Previti (il Cav. voleva nominarlo Guardasigilli!) e degli altri imputati nel processo Mondadori per il seguente reato: «A norma del 110, 319 ter e 321 del codice penale perché Berlusconi Silvio, Previti Cesare, Acampora Giovanni, Pacifico Attilio in concorso tra loro... promettevano e versavano somme di denaro a Metta Vittorio, magistrato della Corte d´Appello di Roma, affinché questi violasse i propri doveri di imparzialità... allo scopo di favorire la famiglia Mondadori/Formenton – e in conseguenza Silvio Berlusconi – nel giudizio che la vedeva opposta dinanzi alla Corte di Appello civile di Roma alla Cir dell´ing. Carlo De Benedetti». Nella stessa sentenza si confermava di non doversi procedere verso Silvio Berlusconi per intervenuta prescrizione, in quanto colpevole al momento dei fatti di corruzione semplice, non aggravata dalla corruzione in atti giudiziari, entrata in vigore poco dopo, nel 1992. Quale uomo politico del mondo libero, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti, gravato da una simile e comprovata accusa, sarebbe tollerato alla testa del governo, al di là di quanti voti abbia ottenuto?