Gli anniversari dell'11 settembre si seguono ma non si somigliano. Ne abbiamo celebrati tanti sotto la cappa dell'insensata guerra irachena (tanti lutti, e per che cosa?), intossicati dall'assurdo concetto di «guerra al terrore»: come si fa a dichiarare guerra non a un soggetto (un paese, un regime, un partito), ma a una tecnica di combattimento? E' quella che il generale David Petraeus chiama «guerra irregolare», una delle forme di «guerra asimmetrica», l'unica che può permettersi un nemico troppo più debole, che sarebbe annientato in campo aperto dalla schiacciante superiorità tecnico-militare degli Stati uniti.
Tanti anniversari dell'attentato alle due newyorkesi torri gemelle di nove anni fa, li abbiamo celebrati sotto un presidente degli Stati uniti, George W. Bush, che si arrogava il diritto di mettersi il diritto sotto i piedi, stracciare la carta costituzionale, gettare nella spazzatura l' habeascorpus, deridere la convenzione di Ginevra, scatenare guerre «preventive» a proprio piacimento, quasi a replicare nella geopolitica quel che il film di Steven Spielberg, Minority report, preconizzava per il sistema giudiziario (punire i criminali prima che commettano un crimine).
L'anno scorso, per la prima volta l'11 settembre è stato ricordato sotto una nuova presidenza più civile, quella di Barack Obama. Sulle ali delle speranze che aveva suscitato la sua promessa di chiudere il carcere di Guantánamo entro un anno, ritirarsi dall'Iraq, finirla con le extraordinary renditions (i rapimenti di civili in stati stranieri per deportarli in centri di tortura di paesi esperti in tale tecnica, come Siria, Egitto o Marocco). Era anche il primo anniversario dopo lo scampato pericolo finanziario (la banca Lehman Brothers fu lasciata fallire il 15 settembre 2008), con la disoccupazione montante, ma con l'ottimismo che il peggio fosse passato.
Quest'anno il clima è inedito. Un po' perché le speranze politiche sono appassite: la prigione di Guantánamo non è stata chiusa (né lo sarà in un futuro prevedibile); le extraordinary renditions sono continuate, solo più discrete; e soprattutto gli americani - e non solo loro - hanno la desolante sensazione di aver scambiato una guerra (in Iraq) con un'altra (in Afghanistan), in un teatro ancora più sfavorevole e più impervio, come mostrano tutti i precedenti (compreso quello sovietico negli anni '80). Un po' perché la «guerra alla disoccupazione» si rivela lunga quanto quella al terrore (anche perché combattuta con assai minore convinzione) e l'ottimismo economico ha ceduto il passo a un fatalismo ansioso, preoccupato dal futuro.
Ma soprattutto, ora sembrano essersi invertiti i ruoli: mentre per anni la società americana era meno barbara del suo potere politico, quest'anno l'11 settembre cade in un clima opposto, con una presidenza laica confrontata a un rigurgito di razzismo, xenofobia e bigottismo senza precedenti almeno dai tempi del senatore Joseph McCarthy, sessanta anni fa. Quest'estate è cominciata con l'Arizona che voleva istituire ronde di vigilantes civili contro gli immigrati clandestini dal Messico e che voleva abolire l'insegnamento dello spagnolo nelle scuole. Poi abbiamo discusso per un mese quale fosse la minima distanza «decente» da Ground Zero perché una moschea non fosse una «provocazione»: cento metri? 200? mezzo chilometro? e chi lo decide? E poi abbiamo temuto fino all'altro ieri che oggi venisse pubblicamente bruciata una pila di copie del Corano
In parte il rigurgito è alimentato dalla crisi economica: nelle depressioni il più facile espediente politico è quello di cercare i capri espiatori, i nemici (interni o esterni): in questo senso una parte della responsabilità sta nel non aver intrapreso azioni più decise contro la disoccupazione, azioni che andavano intraprese un anno fa perché potessero avere un effetto politico nelle prossime elezioni di novembre.
Ma la crisi è solo un fattore, e forse neanche il più decisivo. I veri responsabili del clima mefitico che si respira in quest'anniversario sono i leaders repubblicani «moderati», mainstream, e i loro interlocutori della grande finanza e dei mass-media, le grandi banche e gli editori come Murdoch (che possiede la rete televisiva Fox News e il Wall Street Journal alleato con il Washington Post).
Sono costoro che lanciano il sasso e nascondono la mano: deprecano «l'estremismo» dei Tea Party, ma continuano a chiamare il presidente «Imam Hussein Obama», come fa Rush Limbaugh. Osservava ieri il New York Times che già due anni fa, a Topeka (Texas) un pastore della chiesa battista di Westboro aveva proposto di bruciare il Corano, ma nessuno se l'era filato e la sua provocazione era caduta nel nulla. Quest'anno invece il pastore Terry Jones di Gainesville (Florida) ha ricevuto un'attenzione senza precedenti, tanto che per dissuaderlo a mettere in atto il suo rogo sono intervenuti nell'ordine il generale Petraeus (comandante in capo in Afghanistan), la ministra degli esteri, Hillary Clinton, e infine lo stesso presidente Obama.
Secondo il New York Times, tra luglio e agosto il reverendo Jones ha ricevuto più di 150 richieste d'intervista, esattamente con lo stesso meccanismo innescato con la cosiddetta «Moschea di Ground zero»: se una grande catena tv come Fox New dà straordinario rilievo a una notizia per quanto futile e irrisoria, nessun altro network può permettersi d'ignorarla e avvia una spirale che si autoalimenta. Succede così che un pastore che nella sua chiesa ha meno di 30 fedeli possa provocare tumulti nelle città afghane, come è successo ieri. Ma non potrebbe farlo senza il tacito incoraggiamento dell'establishment conservatore statunitense, che dimostra così di essere disposto a tutto (ma proprio tutto) pur di riprendere quel potere da cui è stato disarcionato due anni fa. Non è casuale se la furia anti-islamica divampa proprio mentre un americano su cinque crede che il presidente Obama sia un musulmano. Assistiamo qui a uno dei processi più tristemente familiari nella storia umana, quello per cui ciò che sembrava una descrizione diventa una prescrizione: così quando nel 1996 il politologo Samuel Huntington parlò di «scontro di civiltà», tutti si affannarono a obiettare all'analisi, senza vedere che la sua in realtà era una proposta che adesso riceve un avvio di attuazione. La dice lunga sull'irresponsabilità politica del Grand Old Party il fatto che nessun leader repubblicano si sia alzato per chiedere alla propria base christian conservative di darsi una calmata.
È un paradosso che proprio sotto un presidente figlio di un musulmano, per la prima volta l'11 settembre sia celebrato in un clima non di guerra al terrore, ma di guerra all'Islam, quasi a confermare la tesi di Osama bin Laden sui «nuovi crociati». Oggi il peggior nemico degli Stati uniti non si nasconde nelle grotte delle montagne afghane, ma si annida nel cuore stesso dell'America.