Si può chiamare democratico un Paese nel quale una delle parti in causa dispone del sostanziale monopolio dell´informazione televisiva e partecipa all´oligopolio di quella stampata? In tutti i Paesi europei la risposta è no. In qualche Paese sudamericano - neppure in tutti - la risposta è sì. Oggi l'Italia si colloca lì, fra il Brasile e la Colombia. (da "Tutta la verità" di Umberto Bossi, Sperling & Kupfer, 1995 - pag. 150)
Può anche darsi che Silvio Berlusconi riesca, con le buone o con le cattive, con argomenti più o meno concreti e persuasivi, a recuperare un numero sufficiente di parlamentari "fluttuanti" per ottenere la fiducia a Montecitorio il prossimo 14 dicembre. E a governare così per un altro paio d'anni, tirando a campare fino al termine della legislatura.
Ma, a parte il degrado e gli interessi del Paese, appare chiaro ormai che è iniziata la fine del berlusconismo. Cioè di quel complesso di valori o disvalori, fondato sull'egemonia - per così dire - culturale della televisione commerciale, di cui il centrodestra s'è fatto politicamente interprete in Italia negli ultimi quindici anni: l´individualismo, l´edonismo, il narcisismo, il machismo, il darwinismo sociale e un certo consumismo esasperato che informa il senso comune, ispirando tali tendenze e comportamenti.
Nessuno può dire quanto durerà questo epilogo. Né tantomeno escludere colpi di coda. Ma verosimilmente sarà l´onda lunga della crisi economica globale a sommergere prima o poi gli ultimi relitti del berlusconismo.
Dall'alluvione in Veneto al crollo di Pompei, dalla spazzatura di Napoli alla mancata ricostruzione dell'Aquila, i segnali del resto non mancano. L'emergenza ambientale del Malpaese è un'allegoria fin troppo esplicita ed eloquente.
Colpisce, perciò, che nell'elenco dei valori declamato in tv dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani, un tema così fondamentale sia rimasto a dir poco in ombra: e pensare che, al Lingotto di Torino, il Partito democratico nacque proprio intorno all'idea che l'ambiente dovesse diventare "politica generale". Non è forse questo oggi il perno di un nuovo modello di sviluppo economico-sociale e quindi l'elemento di maggior distinzione rispetto alla destra? Eppure, nel suo elenco di valori, Fini almeno è riuscito ad auspicare (genericamente) che un giorno l'Italia sarà «più pulita e più bella».
Al di là dell'allegoria ambientale, non mancano nemmeno i segnali di disagio sociale. Questi, però, sono sistematicamente occultati o rimossi dall'apparato mediatico berlusconiano. E così, l'insoddisfazione degli imprenditori, la preoccupazione dei sindacati, la rivolta dei precari o degli studenti, la protesta degli abitanti dell'Aquila, di Napoli o di Pompei, tutto viene emulsionato nel frullatore televisivo, derubricato a show e infine sterilizzato.
Qualche sera fa, nel corso di Ballarò, il direttore del giornale di famiglia - spalleggiato dall'ex ministro che ha fornito l'impunità legislativa alla tv di Berlusconi - è arrivato a sostenere che il presidente del Consiglio non controlla affatto la televisione, perché le principali trasmissioni della Rai sarebbero tutte contro di lui. E oltre a quella di Giovanni Floris, ha citato quelle di Santoro, di Milena Gabanelli e perfino quella satirica di Serena Dandini.
Senza compilare qui un contro-elenco delle trasmissioni filogovernative che vanno regolarmente in onda sulle reti pubbliche e sulle reti Mediaset, basterebbe nominare i due maggiori telegiornali - l'indecente Tg1 di Augusto Minzolini e l'ossequioso Tg5 di Clemente Mimun - per smentire una falsa rappresentazione della realtà televisiva. La verità è che, per la maggior parte, l'informazione in tv è sotto il controllo diretto di palazzo Chigi, come ai tempi nefasti del Minculpop. E fortunatamente, negli ultimi mesi, ha fatto irruzione sulla scena il nuovo Tg di Enrico Mentana su La7, raddoppiando non a caso rapidamente la sua audience e togliendo ascolti soprattutto al telegiornale di Minzolini: è anche contro la sua gestione che si sono pronunciati perciò a grande maggioranza i giornalisti del servizio pubblico, nel referendum interno con cui hanno "sfiduciato" il direttore generale.
Non aveva torto dunque il leader della Lega, Umberto Bossi, a dire nel ‘95 - come si legge testualmente nella citazione all'inizio di questa rubrica - che proprio a causa dell'informazione l'Italia non è un Paese democratico. Allora, a suo giudizio, si collocava fra il Brasile e la Colombia. Ma nel frattempo non s'è spostata di un millimetro.