Il manifesto, 24 luglio 2014
Evidentemente il problema sta altrove. È emerso in un qualche modo nella discussione che si è accesa in uno dei gruppi tematici nei quali si è divisa l’assemblea e concerne la presenza eventuale alle prossime elezioni regionali. In realtà la questione è stata male impostata fin dal suo inizio, e non solo dall’intervista di Smeriglio. Infatti non credo si possa discutere fruttuosamente il da farsi di fronte a questa scadenza, se prima non si affronta una discussione che da tempo incalza su cosa sono diventate le istituzioni regionali – ora terreno privilegiato per l’esercizio della corruzione delle elites politiche — e cosa soprattutto diventeranno se andrà in porto la riforma costituzionale attualmente in discussione al Senato che tocca così pesantemente il Titolo V, già oggetto di ampie modificazioni una decina di anni fa. Le nuove norme che il governo ha proposto tendono a ridurre le regioni a una semplice articolazione amministrativa. L’eliminazione delle competenze legislative “concorrenti” e la “clausola di supremazia” riportano molte tematiche di forte impatto sociale nell’ambito squisitamente statale a sua volta limitato dalle ingerenze degli organi della governance a-democratica europea (ad esempio con il fiscal compact). Il sogno della vecchia sinistra di fare delle regioni un’articolazione democratica dello Stato per avvicinare la cosa pubblica ai cittadini è del tutto travolto. Prima di decidere con chi andare bisognerebbe discutere se e perché.
Ma scavando ancora, il nodo vero del contendere è sulla natura del Pd. Del Pd nel suo complesso, non solo del fenomeno Renzi. È difficile immaginare che Renzi abbia vinto indipendentemente o addirittura contro il Pd. Per quanto sia forte la personalizzazione in atto, abbiamo assistito, attraverso un processo non breve fatto anche di bruschi salti, come l’elezione di Renzi, alla trasformazione di un intero partito in un sistema di governo delle istituzioni e della società. Le analogie con la Dc sono del tutto fuori luogo. Non esiste più alcun riferimento ideale e tantomeno finalistico. Vi è la totale compenetrazione nel presente del sistema di governance europeo e nazionale, cui tutto è sottomesso. Il partito piglia-tutto dà luogo ad una mutazione antropologica delle sue elites e del senso stesso del concetto di partito. Questo spiega anche la fluidità delle posizioni interne, rapidissime nell’uniformarsi all’onda vincente senza lasciare neppure una traccia del proprio percorso. Che ne è dei “giovani turchi”? Le articolazioni delle posizioni personali – al di là delle migliori intenzioni – o territoriali non riescono a contrastare questa liquidità politica né ergersi a opposizione strutturata e duratura.
La sinistra, se sarà, non potrà che svilupparsi fuori e contro questo partito-governo. Il che non esclude il confronto o possibili convergenze su singoli aspetti e temi, ma certamente sì la riproposizione dell’alleanza coartata dal ricatto del voto utile anche a livello regionale. Qui sta il nodo delle divergenze, che va affrontato non a colpi di accetta, ma senza sfuggirvi e con serietà. La trasformazione di una lista nata per un nuovo progetto europeo in un soggetto di sinistra radicato nel nostro paese passa inevitabilmente per questa strada. Prima la intraprendiamo, evitando deragliamenti elettorali, meglio è visto che non sarà breve né lineare.