La Repubblica, 23 febbraio 2013
La cultura, prima ancora che le politiche, neo-liberista che dagli anni Ottanta del Novecento ha incrinato il consenso insieme keynesiano e socialdemocratico che aveva guidato le democrazie capitaliste occidentali, ha infatti presentato la regolazione dei mercati e i sistemi di welfare sviluppati nel do-poguerra come inciampi indebiti alla libertà economica e all’accumulo di ricchezza. Nonostante i molti segnali di fallimento sul loro stesso terreno delle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni (allontanamento del sogno della piena occupazione e del benessere per tutti), la delegittimazione delle politiche universalistiche e degli interventi di contrasto alle disuguaglianti escludenti e squalificanti è continuato, trovando nuova linfa nei processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. Questi hanno eroso le basi sociali dell’economia e il senso di responsabilità per il bene comune di chi ha di più. A differenza, o molto più, dell’industria edelle cosiddetta economia reale, la finanza non ha né patria né territorio; e chi la manovra non ha particolari interessi nello stato di uno o l’altro paese e di chi ci vive, salvo che quando lo sente come un ostacolo da rimuovere, come successe in Cile con Pinochet contro Allende.
Di più, la straordinaria escalation della globalizzazione economica e finanziaria rende gli stati meno democratici, perché riduce la loro sovranità di decisione proprio nelle scelte politiche più ampiamente e socialmente democratiche, ovvero in quelle che riguardano appunto la regolazione dei mercati e la redistribuzione via welfare state. Alla globalizzazione e de-territorializzazione dell’economia fa da contraltatare quasi speculare un rafforzamento della richiesta di politiche identitarie, che circoscrivano “gli uguali” — quelli che “hanno diritto ad avere diritti” — rispetto ai “diversi”, le cui domande di appartenenza comune vanno respinte — che si tratti dello slogan “prima il nord”, o del rifiuto a riconoscere pari dignità alle persone omosessuali. Se il primo fenomeno provoca una sorta di secessione dell’economia non solo dagli Stati, ma anche dagli organismi internazionali, il secondo provoca una sorta di secessione interna, con il prevalere delle identità nazionali, etniche, religiose, (etero) sessuali, e così via sulla comune appartenenza statuale. Sotto questa doppia spinta secessionistica, la democrazia sta conoscendo una mutazione tanto silenziosa quanto insidiosa dei meccanismi che la fanno vivere e riprodurre.
È questo il filo conduttore della densa e articolata riflessione che Nadia Urbinati svolge nel suo ultimo libro in uscita da Laterza (Mutazione antiegualitaria), scritto in forma di intervista con il giornalista Arturo Zampaglione. Una riflessione che spazia da una sorta di ricostruzione della sua autobiografia intellettuale ad analisi puntuali di fenomeni sociali e politici quali la Lega o Occupy Wall Street e che incrocia la tradizione intellettuale e pratica della democrazia statunitense con quella europea continentale, con il ruolo diverso che in esse gioca l’atteggiamento verso lo stato. Ma il tema centrale, cui Urbinati continua a tornare, è che la crescita delle disuguaglianze e la de-solidarizzazione dei ricchi in una economia globalizzata rischiano di far cadere il fragile equilibrio tra libertà, solidarietà e uguaglianza dei diversi su cui si è retta, almeno idealmente se non sempre nei fatti, la democrazia occidentale. Una mutazione che, per non diventare fatale, richiederebbe la capacità di sviluppare nuove narrazioni, che rimettano in moto la disponibilità a operare per un bene comune consensualmente definito.