aggio che alterna inchiesta e riflessione a decrittare l’universo neoliberista». Tradotto un testo significativo sulla dimensione della divisione in classi della società. Il manifesto, 16 aprile 2015
Finalmente l’opera di Pierre Bourdieu La miseria del mondo è stata tradotta. Al di là del fatto che va a mettere un importante tassello nel puzzle italiano dell’intera opera del sociologo francese — per completarlo mancano solo i corsi tenuti all’università, in traduzione da Feltrinelli -, il volume è un esempio di un pensiero critico che alterna inchiesta sul campo e riflessione di lunga durata. Sin dai primi studi sull’Algeria Bourdieu ha scelto l’inchiesta come chiave di accesso alla comprensione dei meccanismi alla base del potere nelle società moderna. Ha poi continuato con opere che lo hanno proiettato sulla scena europea come uno maggiori studiosi della contemporaneità.
Illuminante continua ad essere il saggio sulla Distinzione (Il Mulino), dove Bourdieu analizzava come la divisione in classi della società non si limitava solo nei luoghi del lavoro, ma investiva i consumi culturali, l’accesso alla formazione, garantendo così la riproduzione dei rapporti sociali capitalisti. Sarebbe però sbagliato considerare Bourdieu un marxista ortodosso. Anzi, il sociologo francese ha sempre avuto un rapporto conflittuale con il marxismo occidentale. Ne riconosceva la capacità interpretativa, ma ne ha caparbiamente respinto una della sua caratteristiche più rilevanti, cioè quello di essere una prassi teorica tesa a trasformare la realtà.
Per Bourdieu, infatti, i filosofi, e i sociologi, dovevano limitarsi a interpretare il mondo. Solo in piena vento neoliberista ha mostrato interesse per i movimenti sociali e i conflitti del capitalismo. Ci sono foto divenute famose di un Pierre Bourdieu che parla a un megafono durante lo sciopero del 1994 che paralizzò per oltre un mese Parigi. Sciarpa rossa e una postura del corpo da militante, esprime la solidarietà ai dei lavoratori, sostenendo che la posta in gioco del loro sciopero non erano solo le pensioni o il salario — temi già rilevanti in se — ma degli assetti di potere della società.
Il teorico dell’homo academicus e l’«inventore» del concetto, da molti ritenuto criptico, di «campo» abbandonava le aule universitarie non solo per distribuire neutri questionari ma per «sporcarsi le mani» con l’oggetto del suo lavoro teorico. Per uno che aveva sempre guardato con sospetto, se non ostilità, la figura del maître à penser era un cambiamento che non poteva passare inosservato. Sono però proprio quegli gli anni durante i quali Bourdieu analizza la precarietà avanzante e la dissoluzione delle istituzioni che avevano garantito lo sviluppo del capitalismo dopo la seconda guerra mondiale. I «trenta anni gloriosi» avevano lasciato il passo al lungo inverno neoliberista.
È in questo cambiamento che ha le sue radici La miseria del mondo, dove Bourdieu non esista a parlare della violenza insite nei rapporti sociali capitalistici. Una violenza che ha come risultato non solo l’impoverimento o l’esclusione sociale di una parte della popolazione, ma che è immanente in tutte le relazioni sociali. Ne sono vittime tanto gli sfruttati, ma anche gli sfruttatori. È quest’ultimo l’aspetto che in Francia ha provocato rigetto da molti teorici gauchiste . Ma al di là delle polemiche contingenti, La miseria del mondo rimane un fertile lascito teorico di Bourdieu che può aiutare le scienze sociali italiane a uscire dall’afasia che le contraddistingue.