Il manifesto, 18 giugno 2015
Altro che la storia «luce della verità» o «vita della memoria» di cui parlava Cicerone nel De oratore. Raramente si rivela «maestra di vita», perché il mondo umano non ha alcuna intenzione di farsi suo discepolo o anche solo di prestare attenzione alle forti testimonianze che pur essa ci dispensa.
È questo il caso della teologia economica, ossia dell’idea (o meglio: ideologia), secondo cui si cerca di imporre i dogmi della finanza a guisa di leggi naturali e indiscutibili, perfettamente in grado di garantire la salvezza e financo il progresso di quei paesi che si sottomettono al «fondamentalismo del mercato».
E dire che non ci si sarebbe dovuti spingere tanto lontano con la memoria (Marx, Keynes), perché un perfetto e lapalissiano esempio della fallacia dei diktat imposti dal fondamentalismo del mercato lo avremmo potuto riscontrare anche ai giorni nostri.
Per la precisione pochi anni prima che la grande crisi economica colpisse anche il mondo occidentale, partendo dagli Stati Uniti per deflagrare poi in Europa tra il 2008 e il 2009.
I dogmi del mercato
Né era stato un testimone qualunque a documentare con indiscutibile lucidità i fallimenti prodotti dai dogmi mercatisti, bensì quel Joseph Stiglitz che parlava con cognizione di causa (oltre che valente economista era stato vicepresidente della Banca mondiale ai tempi della presidenza di Clinton) e che per questo fu insignito del premio Nobel per l’economia nel 2001.
In un libro fondamentale per comprendere il nostro tempo (Globalization and Its Discontents, tradotto per Einaudi col titolo La globalizzazione e i suoi oppositori), infatti, Stiglitz spiegava con precisione certosina e analisi incontrovertibile il fallimento a cui erano andati incontro i paesi (per esempio l’Argentina) che negli anni Novanta del secolo scorso si erano sottomessi ai diktat della troika mondiale (Fmi, Banca mondiale, Wto). Mentre per esempio la Cina, fra quelli che respinsero con sdegno le suddette imposizioni (anche perché poteva permetterselo in virtù della sua potenza militare), costruì proprio in quegli anni le premesse per la sua esplosione come potenza economica mondiale.
Circa un decennio più avanti, dopo che gli imprevedibili sviluppi del capitalismo finanziario hanno visto crescere proprio quei paesi che a suo tempo si opposero ai dogmi del neoliberismo (la stessa Cina, ma anche India, Brasile), tocca stavolta all’Europa non soltanto fare i conti con una gravissima e prolungata fase di stagnazione e crisi, ma anche con quegli stessi identici diktat con i quali la teologia economica vorrebbe indicargli la via della salvezza.
Per il tramite di una nuova e specifica troika (Commissione europea, Bce, Fmi), quell’entità fumosa e incompiuta che risponde al nome di Europa si trova di fronte al deja vu più drammatico della sua storia recente: ignorare la storia e sottomettersi a dei diktat che ovunque applicati hanno condotto al disastro e alla povertà diffusa, oppure opporsi fermamente e costruire una soluzione alternativa.
In un libro uscito recentemente (Against the Troika. Crisis and Austerity in the Eurozone, proemio di Oskar Lafontaine, prefazione di P. Mason, postfazione di A. Garzón Espinosa, Verso), Heiner Flassbeck e Costas Lapavitsas affermano apertamente la «forte e rimarchevole correlazione fra gli aggiustamenti richiesti dalla troika e il declino economico dei paesi periferici dell’Euro» (Grecia su tutti), non mancando di menzionare i casi della Francia e dell’Italia, che periferici non sono ma stanno subendo un fortissimo ridimensionamento delle rispettive economie e, soprattutto, della qualità della vita dei cittadini che vi abitano.
Disuguaglianze crescono
I due studiosi mettono in evidenza senza mezzi termini il bivio di fronte al quale si trovano le democrazie europee, che secondo loro sembra destinato ad assumere più che altro le fattezze di un falso bivio e, piuttosto, di un circolo vizioso: da una parte, infatti, cedere ai diktat della troika significa aumentare ulteriormente le disuguaglianze e impoverire la classe media, ponendo le basi per un aumento smisurato di quel malcontento e conflitto sociale che i populismi, i nazionalismi e le destre estreme sono pronti a cavalcare con esiti ancora più nefasti.
Dall’altra, a fronte di governi sedicenti di sinistra, ma più in generale di forze antagoniste al capitalismo che però si rivelano incapaci di elaborare e mettere in atto strategie alternative, si lascia inevitabilmente campo aperto ed esclusivo a soluzioni destinate a distruggere definitivamente quel poco che resta dell’ (incompiuta) unità europea. Creando di fatto le condizioni perché a combattersi (ma poi per davvero?) rimangano soltanto le destre populiste (il cui programma è semplice: uscire dall’euro) e il fondamentalismo del mercato.
Con esiti deleteri in entrambi i casi: «Le divergenze accumulate in questi primi anni di Unione europea e la natura terribile dei programmi di aggiustamento (in senso neoliberista, n.d.r.) pongono la questione quanto mai centrale della sopravvivenza stessa dell’Unione. La prospettiva di un’eventuale disintegrazione e collasso dell’Unione europea non può essere ignorata più a lungo», si legge nel libro. Da questo punto di vista emerge con chiarezza, stando ai due autori di Against the Troika, che spetta alla variegata e spesso frammentaria galassia delle sinistre antiliberiste ricostruire un consenso popolare.
Consenso popolare su cui impostare una dichiarazione di default rispetto al debito, sospendendo il pagamento degli interessi maturati e rinegoziando le forme di appartenenza all’Unione europea.
Solo una sinistra rinnovata e coraggiosa, insomma, possibilmente fornita di un programma fondato e credibile, può giocarsi seriamente la partita con la teologia liberista, riuscendo a tenere in pieni il grande progetto dell’Europa (salvaguardando la sua specificità a livello mondiale: lo stato sociale) ma nella consapevolezza che la prospettiva dell’uscita non è qualcosa né di proibito né di inimmaginabile.