La politica dell’ultimo Berlinguer (il Berlinguer dell’alternativa democratica della questione morale, del rinnovamento dei partiti e della politica per costruire la prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sull’austerità e sulla collaborazione fra i popoli del Nord e del Sud del mondo) non nasce dalla presa di coscienza dell’esito deludente – ed anzi decisamente fallimentare dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – della politica prima del compromesso e poi della solidarietà nazionale praticata durante gli anni settanta. Certo, anche quella presa di coscienza esercitò il suo peso: pesò in particolare l’avvertimento che , mentre la ricerca di un’intesa con le forze migliori del mondo cattolico aveva portato il PCI ai successi elettorali del ’75 e del ’76, la successiva politica di astensione verso il governo monocolore presieduto da Andreotti aveva deluso profondamente la domanda di riforme e di cambiamenti che si esprimeva in quei successi.
Il passaggio alla politica dell’alternativa, dopo il ritorno all’opposizione nel gennaio 1979, non derivò però soltanto dalla delusione per l’esperienza della solidarietà nazionale e dal desiderio di consolidare un radicamento sociale in qualche misura incrinato. Ciò che spinse Enrico Berlinguer fu un’acuta sensibilità – che in lui fu chiara prima che in tanti altri dirigenti del suo stesso partito – per la grave svolta regressiva che sul finire degli anni settanta cominciava a realizzarsi, così sul piano strutturale e istituzionale come negli orientamenti culturali e di fondo, tanto in Italia come negli altri paesi dell’Occidente. A distanza di più di vent’anni appare oggi più chiaro che è quello il momento in cui l’economia capitalistica, dopo la crisi e l’incertezza degli anni settanta, dà avvio a un processo di ristrutturazione e di rilancio che si fonda sulle possibilità aperte dalla rivoluzione informatica e dalla crescente mondializzazione dei processi produttivi e che si avvale di queste possibilità per mettere in discussione i diritti conquistati dai lavoratori con lo stato sociale e per tornare ad affermare un uso flessibile del lavoro come strumento di produzione. A questa svolta in campo economico si accompagna una linea politico-istituzionale che punta sulla restrizione e non più sull’allargamento della partecipazione e della democrazia, sull’affermazione di forme di governo di tipo decisionistico, sulla riduzione della spesa sociale e sulla compressione dei livelli salariali (l’attacco di Craxi alla scala mobile), sull’intreccio sempre più palese fra interessi economici anche personali e uso spregiudicato dei poteri di governo.
Berlinguer comprese con chiarezza che l’indirizzo così prescelto non rispondeva a una generica istanza di “modernizzazione” (come molti dissero anche a sinistra, allora e soprattutto dopo): ma comportava pericoli gravi per una democrazia concepita come effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni, apriva la strada a un sistema di malgoverno fondato sul dilagare della corruzione e del clientelismo, portava a un inasprimento delle ingiustizie e delle disuguaglianze così all’interno di un singolo paese quale l’Italia come fra il Nord e il Sud del mondo. In questo Berlinguer aveva pienamente ragione: di qui la sua battaglia per un’alternativa fondata su un rinnovamento della politica inteso come apertura alla società e soprattutto alle istanze dei nuovi movimenti; sulla centralità assegnata alla questione sociale come preminenza nel governo della cosa pubblica dell’interesse generale sugli interessi di parte; sulla difesa dello stato sociale, sulla lotta per la pace e contro la corsa agli armamenti, sulla ricerca di un’intesa con la parte migliore della sinistra europea (Brandt, Palme) per costruire un rapporto di cooperazione fra Europa e Sud del mondo. Di qui la sua prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sul principio dell’austerità, da lui già affermato nel 1977, nel pieno della crisi economica degli anni settanta: cioè uno sviluppo basato su un uso sobrio e razionale delle risorse e sulla lotta alle mille forme di dissipazione e di spreco, al fine di difendere la spesa sociale e i diritti salariali, di rispettare la natura e l’ambiente, di stabilire equi supporti così fra tutti i popoli come fra le donne e gli uomini di tutto il mondo.
La lotta condotta su queste basi (ricordo in particolare le grandi campagne sulla scala mobile, sulla questione morale, per l’occupazione, contro gli euromissili) segnarono un forte rilancio dell’iniziativa del PCI tanto da consentire, alle elezioni europee che si tennero subito dopo la morte di Berlinguer, la sua affermazione come primo partito superando anche la Democrazia cristiana. Ma l’improvvisa morte di Berlinguer troncò questo rilancio prima che fosse completata l’elaborazione di una piattaforma culturale e politica autonoma e compiuta. Il gruppo dirigente successivo, nonostante la buona volontà di Alessandro Natta e di molti dei suoi collaboratori, non fu all’altezza dei nuovi problemi che di conseguenza si posero. Ebbe così inizio un declino che la scelta di Occhetto nel 1989 era destinata a trasformare in una rotta per l’intera sinistra italiana.
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Non è una cosa facile, nel mondo di oggi, ritrovare le coordinate della figura di Enrico Berlinguer, ricostruire quanto avevano contato il suo carisma e la sua politica, quale spessore di amori e di odii aveva suscitato. E poi quale eredità ha lasciato, che cosa nella grande miniera di idee che aveva messo in campo soprattutto nell’ultima parte della sua vita può essere utile oggi.
Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno dell’84, quasi vent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca. Ma molte delle vicende di cui è stato protagonista sono ancora aperte, molte intuizioni che aveva avuto, se le guardiamo con gli occhi di oggi, dimostrano la sua preveggenza, la sua capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.
Credo che pochissimi, fra i politici italiani, abbiano avuto come Berlinguer la capacità di intuire in anticipo quel che stava succedendo, le linee direttrici del cambiamento. In un momento come quello attuale, con la pace messa in pericolo dalla volontà di comando dell’unica superpotenza rimasta, fa una certa impressione ripercorrere il Berlinguer dei primi anni ’80, che esprime una visione quasi avveniristica del futuro. Che si rende conto, ben prima della fine dell’impero sovietico, come ormai il cuore del conflitto non è più fra paesi capitalisti e paesi socialisti ma fra il Nord e il Sud del mondo: fra un occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del terzo e del quarto mondo. In sintonia con lo svedese Olof Palme, che dopo non molto morirà in un attentato mai del tutto chiarito, Berlinguer era arrivato a prospettare un governo mondiale dell'’economia, inteso però come strumento di riequilibrio e di redistribuzione delle ricchezze.
Oggi ha poi un significato speciale ricordare che Berlinguer credeva profondamente nell’Europa. La vedeva come il laboratorio di una nuova sinistra possibile, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale che a un neoliberismo d’oltreoceano, portatore di ingiustizie profonde. Proprio in quest’ottica credeva fosse importante difendere “l’anomalia europea”, la sua cultura e la forza antagonista dei suoi partiti, dei sindacati e dei movimenti, dai continui tentativi di omologazione che vedeva messi in atto da Ronald Reagan e dalla nuova destra americana. E anche se non poteva certo immaginare la deriva militar- autoritaria di quelle scelte, aveva colto subito le minacce della rivoluzione conservatrice che cominciava allora, con l’esaltazione del capitalismo selvaggio come cura ai mali dell’economia e dell’egoismo individuale come sostituto ad una società solidale.
Quando era segretario del Pci Berlinguer veniva spesso descritto dai giornali come un uomo chiuso, un po’ fuori dal mondo, un“sardo-muto”,l’opposto di un protagonista di quella politica-spettacolo che già allora stava prendendo piede. E invece Berlinguer aveva una capacità di comunicazione fortissima. I commentatori dell’epoca riconoscevano che pochi riuscivano come lui a “rompere” lo schermo della Tv, a parlare alla gente, molto al di là del suo stesso partito, che peraltro era un grande partito del 30 per cento. C’era una passione e una sincerità nel suo modo di esprimersi che l’aveva fatto diventare una specie di contraltare rispetto a tanti altri politici del suo tempo, e in particolare rispetto a Bettino Craxi. Berlinguer aveva capito molto presto che dietro l’etichetta della modernità, del rinnovamento, delle grandi riforme istituzionali, Craxi aveva obiettivi ben più concreti e inquietanti: far saltare il banco della politica italiana, annettersi il Pci e sdoganare il Msi, farla finita con la cultura dell’antifascismo e della Resistenza.
A completare il disegno, c’era la volontà di arrivare a un presidenzialismo di stampo populista, di mettere la mordacchia al “parco buoi”, come Craxi definiva graziosamente il Parlamento, trasformando la democrazia italiana in senso parzialmente autoritario. Contro questi pericoli, che sono poi quelli con cui oggi ci troviamo a fare i conti, Berlinguer si era battuto con tutte le sue forze, fino a quell’ultimo comizio sul palco di Padova, continuato eroicamente quando ormai era stato colpito dal malore, con frasi sempre più smozzicate sugli scandali, sulla loggia P2, sulla nostra democrazia malata.
Una delle prime volte che avevo visto di persona Enrico Berlinguer, (a cui poi avrei dedicato una biografia in due volumi, cominciata quasi subito dopo i suoi spettacolosi e indimenticabili funerali), era stato il 26 settembre 1980, ai cancelli della Fiat. Il colosso torinese, per superare un momento di grave crisi del mercato internazionale, aveva messo in cassa integrazione 28 mila operai. E poi, siccome si erano rotte le trattative con i sindacati, aveva spedito13 mila lettere di licenziamento, espellendo i quadri sindacali e buona parte delle donne, che erano entrate nella fase di espansione. Berlinguer era arrivato a portare la sua solidarietà dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat, in un clima di grande scontro. Avevo seguito il suo giro ai vari cancelli, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, accolto dappertutto da una folla enorme. Anche se non era previsto un suo intervento, Enrico Berlinguer aveva accettato di parlare, su un palco improvvisato e senza microfono, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione.
Proprio in questi giorni - all'inizio del 2003 - in occasione della morte di Agnelli, vari programmi Tv hanno ricostruito quell’episodio, poi passato alla storia come esempio dell’estremismo di Berlinguer, che sarebbe andato ai cancelli per spingere gli operai all’occupazione (“Berlinguer incita alla rivolta”,avevano titolato vari giornali il giorno dopo). Abbiamo visto anche un filmato dove Gianni Agnelli, rispondendo a un giovane Bruno Vespa, sentenziava che “esce rafforzato il parere di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. Nella realtà però, come ricordo molto bene e come ha ricordato in questi giorni Piero Fassino, allora segretario del Pci torinese, le cose erano andate molto diversamente. Rispondendo alla domanda di un sindacalista della Fim che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, Berlinguer aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. “Se si dovrà arrivare a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”, si era limitato a dire. “Ma credi di aver fatto bene?”gli aveva poi chiesto polemicamente Luciano Lama, il segretario della Cgil, con cui c’era una fase di grande dissenso. E Berlinguer aveva risposto:”E’ un momento in cui la cosa più importante è dare la prova ai lavoratori che siamo con loro”. E’ uno dei tanti episodi che mostra fuori da ogni retorica chi era Berlinguer, la sua umanità, la convinzione che, al dilà delle tattiche politiche, è importante stare comunque dalla parte dei più deboli,dei lavoratori. Una lezione insomma più che mai attuale.
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È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti – il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” – che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.
La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su “Rinascita”, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare – o almeno rendere più difficile – colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” – un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista – Ingrao – è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella – determinante – del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Cominci quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre – dice – “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi – e il movimento del ’77 – e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia – dirà Chiaromonte – la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che – perso anche l’appoggio del PRI – si dimette. Seguono due mesi – i primi del “terribile 1978” – di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.
Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto – come dice Amendola – di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.
Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente”.
Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti – e Berlinguer in particolare – peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.
È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche – così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti – implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 – dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. – la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta – sul piano politico e ideale – della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.
L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano – cosa che pure in vari momenti si era detta – era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna – probabilmente sopravvalutata – ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.
Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.
Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.
Contro questo muro – e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo – si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato – nel bene e nel male – gran parte della vicenda dei comunisti italiani.
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