La Repubblica, 29 luglio 2016
Caro direttore, c’è un filo rosso che lega il referendum inglese alle ultime elezioni in Europa e che tratteggia i contorni di una “sinistra senza popolo”, priva del sostegno del suo elettorato storico, le classi popolari. In Austria alle elezioni presidenziali più del 70 per cento degli operai ha votato per l’estrema destra, alle elezioni regionali francesi circa il 40 per cento degli ouvriers ha sostenuto Le Pen. E nel Regno Unito, i bastioni laburisti del Nord hanno premiato la Brexit.
Un terremoto silenzioso sta spaccando in due il cuore elettorale della sinistra: da un lato il tradizionale voto popolare, sempre più frastagliato, tendenzialmente anti-globalizzazione e in cerca di protezione, dall’altro i nuovi elettori urbani, sostenitori di un’agenda liberale, pro-globalizzazione, che prediligono l’apertura.
Sarebbe tuttavia ingiusto negare gli sforzi fatti a sinistra per riconquistare il voto popolare. Jeremy Corbyn, ad esempio, si batte per preservare il sistema sanitario pubblico e frenare le privatizzazioni, mentre la Spd è riuscita a ottenere l’introduzione di un salario minimo in Germania.
Questi sforzi si sono però rivelati insufficienti per frenare lo smottamento elettorale. Concentrandosi unicamente sul terreno economico e sociale, le sinistre europee commettono infatti un errore di impostazione. Oggi la dimensione che conta di più per i ceti popolari, anche quelli che ancora votano a sinistra, non è l’economia, ma è sempre più l’immigrazione. Basta andare nell’Emilia rossa per accorgersi di quanto l’immigrazione incida nel vissuto quotidiano di quello che un tempo si chiamava il popolo di sinistra.
Due questioni sembrano, in particolare, decisive: il welfare state e le frontiere.
Molti amministratori locali del Pd da tempo hanno lanciato allarmi sul rischio di una discriminazione di fatto dei nativi nell’accesso allo Stato sociale. Questo sentimento di ingiustizia rispetto ai concittadini immigrati non riguarda solo l’assegnazione delle case popolari, ma anche i servizi della prima infanzia, gli asili e l’accesso a tutti i servizi pubblici. Negare l’esistenza di una tensione fra nativi e immigrati o, ancora peggio, limitarsi all’esaltazione retorica del multiculturalismo e delle sue virtù non risolve il problema, ma lo esacerba, consegnandone il monopolio all’estremismo.
La sinistra non può inoltre sfuggire al tema del ritorno dei confini, spesso archiviato come reazionario. Il concetto di confine è invece legato alla nascita della sinistra: nella rivoluzione francese fu il Terzo Stato a battersi per la difesa del confine contro un’aristocrazia apolide e sradicata.
Dovremmo chiederci se per la sinistra, in questo tempo di disorientamento e insicurezza, il richiamo che le radici esercitano sugli ultimi, il ritorno all’Heimat, alle tante Patrie individuali, alla comunità che protegge, non sia una risorsa da coltivare piuttosto che un feticcio da abbattere in nome di una visione naive della globalizzazione.
Porsi queste questioni da sinistra non è cosa facile e le timidezze sono comprensibili.
L’immigrazione è il nuovo tabù della sinistra perché ne interpella l’essenza e, cosa più importante, interroga la coscienza individuale di chi si riconosce in quella storia, la nostra storia: come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di «accogliere tutta la miseria del mondo» , per citare il compianto Michel Rocard?
Il futuro della sinistra dipenderà anche dalla capacità con cui saprà rompere questo tabù.
L’autore insegna a Parigi a Sciences Po, collabora con il Wall Street Journal e fa parte della Segreteria del Pd dell’Emilia Romagna