Corriere della Sera,
La democrazia vive se riesce a creare benessere. Se, cioè, si dimostra in grado di distribuire un dividendo ai propri cittadini. Il neoliberismo, figlio della società welfarista e consumerista degli Anni 60 e 70, ha interpretato questo compito nei termini di un aumento delle possibilità individuali di scelta. In un sistema a possibilità crescenti (quello nato dalla combinazione tra globalizzazione e finanziarizzazione), un’idea vincente. È l’incepparsi di questa dinamica che, a partire dal 2008, ci ha fatto entrare in un’altra epoca storica.
Il punto è che il benessere è multidimensionale. Ha certamente a che fare con gli aspetti quantitativi e materiali della nostra vita, come avere a disposizione più beni, poter scegliere tra più possibilità, che però non li esauriscono. In particolare, si è sottovalutato il fatto che la sicurezza è un bene primario. Da molti anni se ne parla. Basterebbe citare Bauman, ripetutamente tornato sul punto. Ma, è solo dopo il 2008 che la questione da privata è diventata pubblica. La ragione è semplice: anche se non vogliamo ammetterlo, il tipo di crescita che abbiamo costruito tende a generare una insicurezza diffusa che tocca la vita quotidiana di un numero elevato di persone. Un effetto che è diventato sempre meno sostenibile al punto da rendersi indipendente dall’effettivo andamento delle cose, così come rappresentato dai dati statistici.
Si pensi all’esito paradossale delle riforme del lavoro di Renzi. In effetti, grazie al Jobs act l’occupazione nel suo complesso è cresciuta in Italia tanto che oggi, in Italia, si contano più di 22 milioni di occupati: un record storico. Ma il problema è che tale crescita è stata più quantitativa che qualitativa: la quota di lavoro instabile o mal pagato rimane troppo alta. Così che la percezione diffusa rimane problematica. O si pensi al tema dei migranti. I numeri non sono mai stati apocalittici e da tempo i flussi si sono arrestati. Ma, al di là dei dati (che dimostrano che non c’è stato un aumento degli atti criminosi), la percezione diffusa è di vivere in un mondo estremamente insicuro: il mix tra informazione mediatica ed esperienza quotidiana produce l’idea di un mondo ormai alla deriva, in cui il singolo cittadino si trova a dover gestire da solo questioni molto complesse (come appunto la convivenza con gruppi etnici completamente diversi e sconosciuti).
L’elenco potrebbe continuare: incertezza ambientale, spesso associata ai disastri naturali e alle inadempienze dei lavori pubblici; esposizione al terrorismo, che si mescola con i venti di guerra; arretramento lento ma continuo delle protezioni offerte dal welfare; fino ad arrivare a legami famigliari sempre più fragili (con il correlato drammatico della violenza domestica).
A tutto ciò si aggiungono poi altri fattori: la fine delle ideologie e la perdita di qualsiasi narrazione condivisa; la confusione del mondo ipermediatizzato dove è sempre più difficile distinguere il vero dal falso; e l’invecchiamento della popolazione, strutturalmente associato a maggiore instabilità e fragilità esistenziale.
Il problema, come scriveva Luhmann, è che la paura non è controllabile dai sistemi funzionali. Anzi, in taluni casi la miglior prestazione funzionale può correlarsi con più paura senza riuscire a eliminarla. Il che tende a far emergere un nuovo stile di morale che si fonda non più su norme, ma sul comune interesse a ridurre la paura. Le nostre società si strutturano ormai attorno a questa nuova faglia. Chi è protetto - perché ha un lavoro stabile, vive in un quartiere ordinato, ha una buona istruzione e di una rete relazionale solida - non riesce a percepire il problema. E non si accorge che dispone di beni che una società avanzata non è più in grado di produrre a sufficienza per tutti.
Se si tiene conto di tutto questo, si capisce l’errore delle élite in questi ultimi anni: non aver voluto vedere gli effetti collaterali della crescita e di conseguenza non aver capito che, nelle mutate condizioni storiche, il benessere distribuito non era più né quantitativamente né qualitativamente adeguato.
Solo così si capisce che questo è un tempo di politica e non di tecnica. La richiesta di sicurezza - spesso guardata con sicumera dalle élite - che viene dai ceti popolari è che sia ristabilito il filtro di una comunità politica in grado di riparare la vita quotidiana dall’esposizione alle conseguenze problematiche della crescita tecno-economica. Che questa istanza venga interpretata solo nella prospettiva sovranista - e in taluni casi decisamente reattiva e violenta - può essere un problema, anche perché le proposte di soluzione sono vaghe e ben poco convincenti. Ma a mancare è soprattutto la capacità di proporre un’idea di sicurezza positiva - non come chiusura o contrapposizione ma come relazione e inclusione - che presupponga un’idea più ampia e articolata di benessere. Una bella sfida, tutta politica.