LaRepubblica, 31 marzo 2016
LE OPERAZIONI MILITARI
La missione navale europea battezzata Sophia (inizialmente chiamata Eunavfor Med) prevede che le forze delle nazioni Ue intervengano nelle acque territoriali libiche (fase 2B) e poi anche sul terreno (fase 3) per contrastare gli scafisti e il traffico di esseri umani, a patto però che ci sia «il consenso dello Stato straniero interessato», o una richiesta delle Nazioni Unite. I governi europei sono propensi a richiedere che siano presenti entrambe le condizioni e in questo momento una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che dia il via libera non sembra fuori portata. Ora dunque si pone un problema di altro genere: da chi deve essere “riconosciuto” il governo perché sia rappresentativo del paese costiero? Un riconoscimento dell’Onu di fatto metterebbe tutto il potere decisionale sulla missione europea nelle mani del Consiglio di Sicurezza.
LA NUOVA MISSIONE
Il riconoscimento da parte delle Nazioni Unite darebbe al governo di Serraj un ruolo che va molto al di là del consenso e delle effettive capacità di controllo nel suo paese: la missione internazionale da mesi allo studio e le sue modalità dovrebbero essere concordate appunto con l’esecutivo appena arrivato. Ma per le nazioni disponibili a fare la propria parte, la debolezza del governo sul terreno è un problema serio. In teoria, il via libera dell’Onu apre la strada ad accordi che potrebbero portare anche a richieste di aiuti militari in tempi molto brevi, e soprattutto molto prima di una effettiva stabilizzazione della Libia.
LE NAZIONI EUROPEE
Gran Bretagna, Germania e Francia, paesi interessati ad arginare il flusso di immigrati irregolari e disponibili a far parte della missione, sembrano al momento tutt’altro che entusiaste dell’idea di una escalation dell’impegno, nonostante la “tirata d’orecchi” ricevuta nelle scorse settimane da Barack Obama. La situazione di disaccordo sul terreno, con la presenza di duecentomila miliziani armati divisi fra le diverse fazioni e l’ombra dei cinquemila fondamentalisti dell’Is che cercano di guadagnare terreno, lascia intuire che l’ipotesi di operazioni militari brevi e decisive debba lasciare spazio alle prospettive di un intervento lungo e costoso, in termini economici ma soprattutto di vite umane. Il governo Cameron, criticato ferocemente in questi giorni per il ruolo avuto da Londra nella deposizione di Gheddafi, per ora si limita a «non negare» che istruttori britannici sono già presenti in terra libica e a mandare l’incrociatore Enterprise per contrastare l’azione degli scafisti, dando disponibilità all’invio di motovedette della Guardia costiera ed elicotteri. Anche Berlino ha spedito i suoi tecnici per dare assistenza, ma fermandoli in Tunisia.
L’ITALIA
L’entusiasmo con cui il governo si è proposto alla guida di una missione internazionale sembra del tutto tramontato. La Farnesina sottolinea che bisogna offrire ai libici l’opportunità di costruire una pace, ampliando la base del consenso al governo Serraj, purché questo avvenga in tempi ragionevoli. Palazzo Chigi sembra disponibile solo a fornire assetti tecnologici (cioè sostanzialmente cacciabombardieri e droni da usare contro il sedicente Stato islamico), oltre a un numero limitato di truppe speciali. L’idea dello sbarco di un contingente numeroso non è presa in considerazione. Con i ricordi del passato coloniale, una presenza italiana troppo rilevante potrebbe avere l’effetto di far aderire anche le milizie “laiche” al fronte jihadista. Il problema è che gli Stati Uniti premono perché l’Italia dia seguito ai suoi proclami. E adesso persino una think tank come la Brookings ricorda all’Italia, con un report appena pubblicato, che è suo interesse contrastare l’influenza dell’Is in territorio libico.