Il governo italiano ha preso l’iniziativa in Europa sul controverso tema delle migrazioni e dell’asilo, presentando un progetto, nelle intenzioni ambizioso anche se nei dettagli ancora molto vago, il . I commenti si sono appuntati quasi tutti sulle reazioni tedesche e sulla questione del finanziamento del programma, trascurando i contenuti o lasciando trasparire un consenso di fondo.
L’intento è chiaro e va nella direzione del senso comune: affidare ad altri i controlli, accogliere chi ne ha il diritto al di fuori dell’Europa, preservare l’Unione da scomodi obblighi umanitari, evitando i deplorevoli rimbalzi dei profughi all’interno dell’Unione Europea. Non per nulla, il modello a cui il testo s’ispira è quello del controverso accordo con la Turchia.
Il testo inizia parlando di un’Europa posta di fronte a fenomeni migratori “crescenti” e “senza precedenti”, in contrasto con dichiarazioni assai più pacate rilasciate anche nel recente passato dal presidente del Consiglio. Va ricordato ancora una volta: le migrazioni nell’Ue sono nel complesso stazionarie, intorno ai 51 milioni di persone compresi i 17 milioni di migranti intraeuropei, su circa 500 milioni di abitanti (Dossier immigrazione 2015). È aumentato soltanto il contingente molto più modesto, ma ingombrante, dei richiedenti asilo: 628mila domande nel 2014, comunque non molti rispetto ai numeri di Turchia, Libano, Giordania. L’86 per cento dei rifugiati mondiali continua a trovare scampo in paesi del cosiddetto Terzo Mondo.
Malgrado l’esordio, il assume una posizione meno rigida rispetto all’Agenda europea di un anno fa su un punto importante: l’apertura a nuovi ingressi legali in Europa anche per motivi di lavoro, in modo da offrire un’alternativa credibile agli arrivi illegali. Per il resto, tuttavia, i termini ricorrenti sono controllo dei confini, sicurezza, gestione dei flussi, rimpatri. Parole come diritti umani, protezione dei rifugiati sono pressoché assenti.
Il testo parla di gestione dell’asilo in loco secondo standard internazionali, ma evita di porre alcune serie questioni: come possono offrire una protezione umanitaria adeguata ai rifugiati stranieri paesi che non riescono a offrirla ai propri cittadini? E se lo faranno, grazie ai finanziamenti dell’Ue, come potranno controllare il risentimento di cittadini che riceveranno servizi assai più poveri di quelli forniti ai rifugiati? E come controlleranno i richiedenti asilo denegati, che prevedibilmente cercheranno di sottrarsi alle espulsioni?
Aiuto allo sviluppo o alla repressione?
Altri problemi riguardano le promesse di aiuto allo sviluppo. Sono sostanzialmente due. Il primo è il rischio di finanziare i governi autoritari e bellicosi che sono all’origine dei flussi di rifugiati, o comunque gravemente condizionati da corruzione e inefficienza. Il dubbio è che si intenda finanziare la repressione delle migrazioni e del diritto di asilo, più che lo sviluppo: una repressione più facile da attuare lontano dalle telecamere europee, dal controllo delle organizzazioni umanitarie e dai sussulti di umanità delle opinioni pubbliche occidentali.
Il secondo problema consiste nell’erronea persuasione che i migranti arrivino dai paesi più poveri e che lo sviluppo possa fermarli. È vero il contrario: le migrazioni sono processi selettivi, partono coloro che dispongono di risorse. Con lo sviluppo, aumentano le persone che trovano accesso al capitale economico, culturale e sociale necessario per partire. In una prima, non breve, fase, lo sviluppo quindi fa crescere e non diminuire il numero dei migranti. Solo nel lungo periodo si riducono le nuove partenze.
La promozione dello sviluppo è un obiettivo nobile, ma combinata con le pretese di controllo delle migrazioni finisce in un corto circuito. Del resto, nel mondo sanno bene che le rimesse degli emigranti forniscono aiuti ben più consistenti e tangibili delle promesse dei governi occidentali: le previsioni della Banca mondiale per il 2016 parlano di 610 miliardi di dollari inviati verso i paesi in via di sviluppo. La rincorsa del
Migration compact sarà ardua.