La Repubblica, 9 giugno 2016
Più schiavi di quando c’erano i caporali bianchi, i ruffiani dei padroncini degli aranceti che erano tutti del posto, contemporanea versione del campiere. Più schiavi di quando si erano ribellati sei anni fa ai boss dei giardini. Più schiavi di quando li avevano ammassati lì dentro perché la vecchia fabbrica abbandonata era diventata una porcilaia immonda. Era un oleificio finanziato nel 1981 con soldi pubblici e dove non hanno mai spremuto un solo litro di olio, luogo ideale anche per il macero di umanità, per infliggere pene indicibili, per rinchiudere ai confini del mondo i più dimenticati.
Tende nel fango, tanfo, veleni, faide e vendette per un pezzo di capra squartata e contesa. Schiavi fra gennaio e i primi di marzo, quando la pianura stordisce con il profumo di zagara e loro si spaccano la schiena per meno di un euro a cassetta. Schiavi quando non ci sono più arance e mandarini, ma solo terra arsa e non c’è più neanche quell’euro. Schiavi come non lo erano stati mai nemmeno a casa loro. In Senegal, in Ghana, nel Mali, in Niger, in Burkina Faso.
Molti di loro non sono neanche più nomadi. Solo i più fortunati si spostano, quelli che hanno un aggancio in Puglia per le olive, quegli altri che hanno amici negli orti della Campania. Ma i fantasmi restano sempre qui, nell’accampamento prigione, nel bivacco “temporaneo” che è oramai per sempre la loro casa, di plastica o di corda, di cartone, o con il cellophane che quando tira vento si gonfia come una vela.
Qualcuno si fa vedere sulla Gioia Tauro Road. Così la chiamano loro, la vecchia statale numero 18 che una volta era la sola strada a scendere da Napoli fino a Reggio Calabria. Ma solo i più intrepidi si avventurano lungo su quel percorso dove all’orizzonte si stagliano le gigantesche gru del porto e i mezzi meccanici che sembrano “pupi”, sempre in movimento, tirati da fili invisibili.
È vero che ci sono più controlli nei campi, che i “mediatori” calabresi non si espongono più e al loro posto hanno ingaggiato gente dell’Est e pure qualche nero, fratelli contro fratelli. Ma sanzioni amministrative e qualche centinaia di euro di multe, non fermano i padroni dei giardini che con il popolo nero raccattano milioni di euro a stagione. È vero che promettono da anni di risanare la tendopoli di San Ferdinando, di abbatterla e di ricostruirla «più bella». Ma la tendopoli è sempre lì, in tutta la sua oscenità e in tutta la sua immoralità.
L’Italia ha le sue emergenze nel fronte Sud, la costa africana della Sicilia, l’isola di Lampedusa, gli sbarchi, i naufragi, le tragedie con tutti quei cadaveri in fondo al Mediterraneo. L’Italia deve soccorrere gli ultimi che vengono dal mare. Gli ultimi che hanno toccato terra non interessano più. Se sono vivi o se sono morti-vivi, non importa. Tanto nessuno se ne accorge. Nessuno li conosce. Nessuno sa che esistono. Nemmeno a Rosarno, a Gioia Tauro, a Taurianova, nemmeno a San Ferdinando che è lì a un passo.