La Repubblica, 26 giugno 2016 (c.m.c.)
I miei studenti provengono dalla periferie di tutto il mondo. Hafiz giocava a pallone sui terreni sconnessi nei dintorni di Kabul prima che i talebani uccidessero i suoi genitori, ecco perché controlla la sfera come un adolescente brasiliano. Mamudu ha respirato l’odore degli pneumatici bruciati ai margini del deserto, a due passi da Bamako. Omar è cresciuto in una discarica non distante da Rabat. Ovidiu ha dormito nelle fogne di Bucarest. Rashdur suonava il flauto lungo le rive fangose degli acquitrini intorno a Dacca. Florinda vendeva schede telefoniche a Sarekunda, in Gambia.
E adesso, dopo che, in un modo o nell’altro, sono arrivati nell’Urbe imperitura, in quali ambienti vivono? Al Pantano, a Grotta Celoni, a Pietralata, a Santa Maria del Soccorso, a Mostacciano, a Torre Spaccata: i quartieri posti ai margini della metropoli dove hanno sede i centri di pronta accoglienza per minori non accompagnati, oppure per richiedenti asilo politico.
La nostra Africa. Palazzine con cancelletti e citofoni senza nomi al cui interno l’antica capitale colloca, non sapendo dove altro sistemarli, questi nuovi sciuscià, lazarilli, pinocchietti neri, coi ginocchi eternamente sbucciati, gli occhi vispi, le passioni segrete, le speranze perdute ma sempre sul punto di venire ritrovate. Penso a Moustafà, che vendeva datteri sul Delta del Nilo e stava tutto il giorno all’aperto.
Adesso abita in una stanza con un vecchio poster di Balotelli attaccato alla parete proprio sopra il lettino. Non fa niente dalla mattina alla sera. In una classe chiusa, seduto al banco, non ci saprebbe stare: preferisce venire da noi, alla Penny Wirton, a studiare l’italiano. Gli regaliamo una maestra tutta per lui con penna, quaderno, libro e caramelle. Perfino così è difficile tenerlo concentrato: analfabeta nella lingua madre, inventa qualsiasi scusa pur di evitare l’esercizio che gli sottopongo. Allora lo prendo per mano e me lo porto in giro, al secondo piano del liceo “Giovanni Keplero”, dietro Ponte Marconi, dove una dirigente scolastica illuminata, Maria Concetta Di Spigno, ci ha messo a disposizione sette aule il mercoledì e giovedì pomeriggio.
Il monello egiziano coi capelli tagliati alla Moicana, come Genny Savastano, vive un sentimento contrastante: da una parte è ancora Antoine Doinel, indimenticabile protagonista dei Quattrocento colpi, cioè vuole scappare continuando a correre sulla battigia, verso nuovi lidi, amori, felicità, professioni; dall’altra capisce che prima o poi dovrà fermarsi e, per essere veramente se stesso, avrà bisogno di trovare un lavoro, acquistare un’automobile, sposarsi, crescere dei figli. Ripeness is all, appunto. Mentre mi stacco da lui per entrare in sala insegnanti alla ricerca di atlanti e cartine, mi accorgo che la mano dello scolaro arabo oppone resistenza, come farebbe un figlio piccolo col padre, se questo lo lasciasse da solo per qualche attimo. Dopo aver riacciuffato il fuggiasco, ora devo rassicurarlo: aspetta, gli dico, prendo le parole colorate e torno.
Basta un attimo e lo perdo. È andato al bagno; attenzione perché potrebbe combinarne di tutti i colori: tipo spiccare il volo coi gabbiani della Magliana e tornarsene a casa sua, come in fondo desidera, anche se non lo ammetterebbe mai. È proprio vero: con lui non si può mollare la presa. È a questo punto che incrocio lo sguardo di Teresa, la liceale del “Pilo Albertelli”, all’Esquilino, che, insieme a una ventina di compagne, sta svolgendo presso di noi il tirocinio formativo nel quadro dell’alternanza scuola lavoro previsto dalla nuova riforma dell’istruzione pubblica.
Sarà per la presenza fantasmatica del priore di Barbiana, che non smette di agitarsi dentro di me, ma è naturale pensare a lei come alla soluzione dei problemi di Moustafà. Non era stato proprio don Lorenzo Milani a proclamare a chiare lettere che per fare una scuola come si deve basta chiamare dei sedicenni a insegnare ai dodicenni? E chi sono i ragazzi di Barbiana di oggi, se non quelli che sbarcano a Lampedusa? Così, nel momento in cui il diretto interessato spunta in corridoio, appena vede l’incredibile docente che gli ho affidato, trasforma l’aria scalcinata di bandolero stanco che lo contraddistingue in un’imprevedibile solerzia. La studentessa, che potrebbe essere una sorella maggiore, riesce perfino a farlo sillabare sul manuale: una cosa dell’altro mondo.
Mi torna alla mente, in contrapposizione speculare, Mohamed, il ragazzo marocchino che un paio di anni fa ci raccontò di aver vissuto da protagonista i fatti di Tor Sapienza. Gli abitanti del quartiere, inferociti dall’arrivo dei migranti, attaccarono il centro di accoglienza e lanciarono oggetti contro le finestre suscitando la reazione dei minori che vi alloggiavano. Una guerra fra poveri, leggemmo sui giornali. E la mortificazione che decifrai nell’espressione del nostro scolaro mentre rievocava gli eventi ai quale aveva partecipato restò un’emozione privata, soltanto mia.
Forse in quei giorni si verificò una frattura che certi osservatori hanno scoperto solo ieri l’altro, quando i risultati delle più recenti elezioni comunali l’hanno impietosamente registrata. Intendiamoci: lo scarto lancinante fra chi ha l’ufficio in Campidoglio e quelli che alle prime luci dell’alba prendono il tranvetto del Casilino diretti alle Ferrovie Laziali per andare al lavoro, sembra troppo forte per essere considerato il frutto di una semplice stortura amministrativa.
Tutti sapremmo indicare le magagne accumulate nel tempo. Le potremmo individuare con precisione, quasi fossero cicatrici di una ferita ben nota, le tappe della sconfitta annunciata: edilizia di rapina; trasporti improponibili; servizi inefficienti; interventi che cadono dall’alto come meteoriti, pensiamo alla Chiesa della Misericordia di Richard Meier a Tor Tre Teste; biblioteche lasciate da sole come fortini nella pianura del Serengeti; finanziamenti a progetti magari interessanti, ma che non hanno alcuna ricaduta nella vita sociale del territorio.
La crisi etica in cui annaspiamo, innegabile su scala nazionale e ben più grave dello scompenso economico del quale sempre sentiamo discettare, a Boccea è clamorosa. A Torre Maura diventa una piaga purulenta. A Ostia ha creato i presupposti dello sfacelo sotto i nostri occhi. Poi ci lamentiamo che molti ragazzi delle borgate vanno da Casa Pound a cercare uno sbocco al loro vitalismo tumefatto.
In quale altro luogo potrebbe andare un ragazzo cresciuto nel vuoto culturale, senza anticorpi, coi frantumi esplosivi che i suoi genitori, fragili e violenti, gli hanno trasmesso? Dove sono gli adulti credibili capaci di tenergli testa offrendogli un modello nuovo, che non sia quello degli addominali scolpiti in palestra, in grado di fargli comprendere che la libertà non è il superamento del limite ma la sua accettazione?
Continuiamo così, con le parole al vento, i linguaggi incrostati non legittimati dall’esperienza, la ricerca del consenso fine a se stessa, le frasi fatte, i cinismi introiettati nel sangue, gli alibi interiori e presto Corviale diventerà la nostra Molenbeek, là dove tutto sembrava perfetto: scuola, sanità, sport, corsi professionali. Cosa mancava? Il fattore più importante: la qualità del rapporto umano.
Lasciate stare le bandiere sventolate nei salotti della Grande Bellezza. Scendete da cavallo e baciate il lebbroso (spirituale) dei giorni nostri: ha una moglie e due figli, abita a Casetta Mattei, lavora ai ponteggi, guadagna mille euro. Per mantenere la sua famiglia fa una rivoluzione al mese. Se non parlate con lui, continuerete a vincere soltanto a Corso Francia.
Roma non potrà assorbire tutto, come ha sempre fatto, quasi fosse una spugna infinita. Detto questo, l’errore più grave che potremmo commettere sarebbe quello di attribuire alla classe politica l’intera responsabilità di quanto accaduto.
Come se noi, comuni cittadini, fossimo immuni. Non basta scandalizzarsi.
Bisogna entrare in azione, superando i vecchi schemi novecenteschi. Me lo ricordo Alessandro: naziskin dell’Alberone, il giorno in cui, rischiando, lo ammetto, gli posi di fronte Ismail. Chi non li avesse conosciuti, avrebbe potuto sintetizzare così: la croce uncinata contro la mezza luna. E allora, dico io, perché sorrisero, insieme a me, riconoscendosi fratelli nel nome del grande Mohamed Salah? Non il terrorista parigino, ma l’omonimo giocatore della Maggica.