Internazionale online, 29 dicembre 2016 (p.d.)
In sociologia si è parlato spesso della “funzione specchio” dell’immigrazione: mentre raccontiamo quello che l’Europa ha deciso di fare per affrontare la questione migratoria, ci accorgiamo che stiamo descrivendo in realtà i limiti delle istituzioni e delle politiche europee nel loro complesso, le loro inadeguatezze, che sono venute alla luce proprio attraverso il fenomeno dell’immigrazione e della sua gestione disastrosa. Ecco alcune tappe di questo rapido cambiamento di prospettiva, avvenuto sulla pelle di migliaia di persone. Tra molti segnali di chiusura, abbiamo voluto ricordare due pratiche di apertura, ancora minoritarie, che l’Italia ha sperimentato proprio nel 2016: i corridoi umanitari e il potenziamento del Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), un modello di accoglienza virtuoso per richiedenti asilo e rifugiati.
L’accordo con la Turchia
Le organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato l’irregolarità dell’accordo, accusandolo di violare il diritto internazionale, e hanno presentato diversi ricorsi alla Corte europea di giustizia. Una delle conseguenze più gravi dell’accordo è stata che 55mila profughi che si trovavano in Grecia sono rimasti bloccati in campi di fortuna come quello di Idomeni al confine con la Macedonia, o nei campi governativi, senza poter accedere né all’asilo né al ricongiungimento familiare. Fenomeni simili, anche se in dimensioni ridotte, sono stati registrati in tutti i paesi della rotta balcanica, dove migliaia di persone sono rimaste in un limbo burocratico, impossibilitate a chiedere asilo o a raggiungere i propri familiari in altri paesi dell’Unione europea. Dopo lo sgombero dei campi informali, in Grecia i profughi sono stati trasferiti in campi gestiti dal governo greco, allestiti in fabbriche abbandonate e vecchi magazzini, in tende e in condizioni di precarietà definite dalle organizzazioni non governative “pericolose e inadatte per la vita umana”.
Durante l’estate i profughi presenti in Grecia sono stati censiti dalle autorità greche ed europee e sono stati indirizzati verso la richiesta del ricollocamento in altri paesi europei, prevista dall’Agenda europea sull’immigrazione entrata in vigore nel settembre del 2015. Ma i ricollocamenti sono partiti molto lentamente (solo 1.549 persone sono partite dall’Italia e 5.437 dalla Grecia su un totale di 40mila previste) e migliaia di persone vivono ancora in condizioni disumane nei campi gestiti dal governo in tutta la Grecia, e in molti altri paesi dei Balcani come la Serbia. Il 40 per cento dei profughi bloccati in Grecia è costituito da bambini che almeno da un anno non frequentano le scuole, se non quelle autoorganizzate all’interno dei campi.
La distinzione tra migranti economici e profughi, stabilisce di fatto che i migranti possano accedere a una forma di protezione in Europa in base alla loro nazionalità. Hanno diritto a essere accolti i siriani, gli eritrei e gli iracheni, quelli cioè a cui è riconosciuta una protezione nella maggior parte dei paesi europei, mentre tutti gli altri rientrano nella categoria dei migranti economici. In questa categoria finiscono anche coloro che scappano dalla guerra in Libia, o da quella in Afghanistan, oppure i migranti che fuggono da governi dittatoriali come quello gambiano e quello etiope. Per queste altre nazionalità è possibile richiedere l’asilo in Italia, ma senza troppe speranze di avere un responso positivo alla propria domanda. In Italia nei primi sei mesi del 2016 le domande d’asilo sono aumentate del 60 per cento e le risposte negative (i dinieghi) sono state il 60 per cento. Un numero altissimo di persone in questo modo è diventato irregolare, senza documenti e senza diritti, dopo essere passato nelle maglie del sistema di accoglienza italiano che di fatto ha prodotto clandestinità, invece che integrazione.
Nei paesi di arrivo dei migranti sono stati istituiti dei centri per l’identificazione: appunto gli hotspot. Se in passato i migranti che arrivavano nel sud dell’Europa cercavano di sottrarsi al sistema di accoglienza istituzionale e di raggiungere il paese di destinazione con i propri mezzi, dopo l’entrata in vigore dell’Agenda questo non è più vero. In Italia nel 2016 sono stati fotosegnalati e identificati il 99 per cento dei migranti arrivati: molti di loro hanno chiesto di essere ricollocati, altri hanno fatto domanda d’asilo. Amnesty international e altre organizzazioni per i diritti umani hanno denunciato la pressione attuata dall’Unione europea sulle autorità di Italia e Grecia per l’identificazione massiccia dei migranti. “Un processo di screening non fondato su alcuna legislazione e fatto con troppa fretta – quando le persone sono ancora troppo stanche o traumatizzate dal viaggio per poter prendere parte in modo consapevole a questo processo, e prima che abbiano avuto la possibilità di ricevere informazioni adeguate sui loro diritti e sulle conseguenze legali delle loro dichiarazioni – rischia di negare a coloro che fuggono da conflitti e persecuzioni l’accesso alla protezione alla quale hanno diritto”, scrive Amnesty international nel suo rapporto Hotspot Italy, in cui denuncia le violazioni avvenute contro i migranti nei centri di identificazione italiani. A causa della lentezza del sistema di ricollocamento per quote, la maggior parte dei migranti che avevano aderito al programma è rimasto in attesa per mesi. Molti, stanchi di aspettare, hanno lasciato i centri e si sono rimessi in viaggio. Questo ha determinato una situazione complicata in alcune città italiane come Roma, Ventimiglia, Milano, Como, Bolzano. In queste città è stato registrato un flusso di persone che sostavano per alcuni giorni e che si dichiaravano in viaggio verso in Nordeuropa, ma a differenza dei migranti che erano in transito l’anno precedente, quelli in transito nel 2016 erano stati tutti identificati allo sbarco e alcuni avevano già chiesto di essere ricollocati. E per questo avevano perso il diritto di chiedere asilo in altri paesi europei ma allo stesso tempo, essendosi allontanati dai centri di accoglienza, avevano perso il diritto di essere assistiti dal sistema italiano. Inoltre alle frontiere di Ventimiglia e a Chiasso sono stati registrati numerosi casi di respingimento (tra i respinti molti minori) come denunciato dall’Asgi, da Amnesty international e da altre organizzazioni non governative. Queste persone, rimandate in Italia, sono state trasferite nell’hotspot di Taranto in un programma che le autorità italiane hanno definito di “alleggerimento delle frontiere”.
Un’altra conseguenza dell’approccio hotspot è stato l’ampliamento della rete dei Centri di espulsione e identificazione (Cie), come documentato dal Rapporto diritti dell’associazione A buon diritto. Fino a ottobre del 2015 i Cie erano cinque (Torino, Roma, Bari, Caltanissetta e Trapani) e nel 2016 sono diventati otto con l’apertura di quelli di Brindisi, Crotone Sant’Anna e con la conversione del centro di Trapani in un hotspot. Il 4 agosto 2016 inoltre è stato firmato un accordo di collaborazione tra la polizia del Sudan e quella italiana che è stato all’origine di alcuni rimpatri. Il 24 agosto 2016 quaranta migranti sudanesi sono stati fermati a Ventimiglia e trasferiti nell’hotspot di Taranto dove il 22 agosto sono stati raggiunti da un decreto di espulsione. Il 24 agosto da Taranto 48 sudanesi sono stati trasferiti a Torino per essere rimpatriati. Alcuni di questi migranti erano originari del Darfur e hanno denunciato i rischi a cui andavano incontro con il rimpatrio.
La militarizzazione delle frontiere
Nel dicembre del 2016 a bordo della nave San Giorgio della marina militare italiana è cominciato anche l’addestramento di 62 agenti della guardia costiera libica, nell’ambito dell’Operazione Sophia, del dispositivo militare Eunavfor Med, a cui ha collaborato anche Frontex. Lo scopo dell’addestramento dei libici rientra nel piano di lotta al traffico di esseri umani e di rafforzamento del controllo delle frontiere. Secondo il rapporto Border wars dello studioso Mark Akkerman “il bilancio di Frontex tra il 2005 e il 2016 è aumentato del 3.688 per cento”, ed è passato da 6,3 milioni a 254 milioni di euro all’anno. Dal 2014 è quasi triplicato, passando da 97 milioni ai 281 milioni di euro previsti per il 2017. A beneficiare di queste politiche sono soprattutto le aziende militari, tecnologiche e della sicurezza. Border wars mostra che l’industria delle armi non solo ha beneficiato della militarizzazione delle frontiere europee, ma ha anche fatto pressioni e ha incoraggiato questo approccio facendo attività di lobby. Akkerman ha inoltre mostrato come molte aziende che stanno facendo affari con Frontex sono le stesse che vendono armi ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa da cui i migranti cercano di scappare, venendo in Europa. Questo dispendio economico senza precedenti per il controllo delle frontiere esterne è coinciso con un numero record di morti nel Mediterraneo: secondo i dati raccolti delle Nazioni Unite nel 2016 hanno perso la vita 5.011 persone durante la traversata del Mediterraneo, 1.300 in più di quelle morte nel 2015 (3.771).
I corridoi umanitari dal Libano
Il rafforzamento del sistema di accoglienza Sprar
L’unica debolezza di questo sistema è che l’adesione al sistema Sprar è volontaria per i comuni, mentre la distribuzione dei migranti per regione nel sistema dei Cas è disposta dal ministero dell’interno attraverso le prefetture ed è obbligatoria. Questo elemento continuerà in parte a favorire la diffusione dei centri straordinari, anche se gli incentivi economici ai comuni virtuosi potrebbero rappresentare un punto di partenza per favorire l’idea dell’immigrazione come risorsa invece che come problema.