Internazionale online, 26 dicembre 2016 (c.m.c.)
Dopo anni che sento parlare di ecovillaggi senza averne mai visti, ho deciso di andare a visitarne un paio non lontano da dove vivo – in realtà ci sono ecovillaggi anche vicino a dove vivete voi. Volevo capire come vivono persone che hanno scelto di condividere la casa, a volte lo stipendio, spesso anche le idee e la visione del mondo. Persone che vanno d’accordo e decidono di darsi una mano, in sostanza. Piccole utopie contemporanee nell’era della fine delle ideologie.
Ero anche curiosa di vedere come vivono i bambini in posti del genere, se è vero il detto africano – oggi molto citato – secondo cui per crescere un figlio ci vorrebbe un intero villaggio, anche se poi ognuno sta chiuso nella propria casa.
Che la vita in comune possa essere una soluzione per combattere la piaga dei figli unici e la disoccupazione? Per dare vita a una vera alternativa antisistema? Sono andata a vedere tre comunità che fanno parte del Rive (Rete italiana villaggi ecologici) e che, con le dovute differenze, sono assimilabili alla definizione di ecovillaggio: un gruppo di persone che hanno scelto di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.
La prima cosa che ho capito, visitando questi posti, è che qui bisogna essere pronti ad abbassare il proprio tenore di vita in cambio di una qualità della vita migliore: qui si lavora con meno stress, soprattutto per chi riesce a ritagliarsi un impiego all’interno della comunità, si vive in modo generalmente più sano, si usa meno l’auto, si mangiano cose più buone.
Certo non è una vita per tutti, però questa è la prima cosa da tenere presente. In alcuni ecovillaggi è necessario anche aderire a un «percorso di crescita personale», tuttavia queste comunità sono generalmente laiche. La seconda cosa che ho capito è che un ecovillaggio non è solo un posto dove si vive insieme, ma è, o dovrebbe essere, un centro di sperimentazione. Un luogo dove sperimentare l’agricoltura, i sistemi di riscaldamento, l’istruzione, l’edilizia, la cucina, l’economia ma anche nuove combinazioni di lavoro manuale e intellettuale, nuove forme sociali e nuovi rapporti tra le generazioni.
Più si sperimenta e più la comunità è viva e autosufficiente. Anzi, le comunità che 2016 hanno raggiunto l’autosufficienza economica – che non vuole dire non uscire mai a fare la spesa! – sono quelle in cui i residenti riescono a mantenersi lavorando internamente, talvolta rivolgendosi a un pubblico esterno organizzando corsi e seminari a pagamento.
Tuttavia, per parlare di ecovillaggi bisogna per forza tornare agli anni settanta. Tutto comincia nel 1971, quando un professore di San Francisco, Stephen Gaskin, le cui lezioni erano seguite da un folto pubblico e duravano intere nottate, fondò The Farm, il primo ecovillaggio del mondo, a Summertown, Tennessee (lo stesso anno in Danimarca era nata Christiana, la famosa comune di Copenhagen; e solo tre anni prima era stata fondata Auroville in India, anche se gli esperimenti comunitari cominciarono già nei primi dell’ottocento con le utopie socialiste).
Più di quarant’anni dopo The Farm esiste ancora, ospita 250 persone ed è impegnata a più livelli nel campo di ricerca sostenibile, nel frattempo la vita comunitaria è diventata una alternativa di vita più realistica (la rete Gen – Global ecovillagge network – che riunisce tutti gli ecovillaggi del mondo di cui fa parte anche Rive, la rete delle comunità italiane, testimoniano questa piccola e lenta fioritura).
Negli ultimi anni il fenomeno ha attirato un numero crescente di persone, anche solo in teoria e per varie ragioni: la sempre più bassa vivibilità delle grandi città, la crisi economica (vivere insieme normalmente costa meno), la fine della militanza politica o almeno di una certa militanza politica, una generale crisi dei valori, il radicamento del pensiero ambientalista e l’attenzione sempre più diffusa a uno stile di vita capace di futuro.
Ma quanti sono gli ecovillaggi italiani? Molte di queste realtà sono in costante divenire – se c’è una cosa da capire su di esse è che ci vuole tanto tempo per costruire una realtà di questo tipo – e secondo la Rive oggi in Italia ci sono una ventina di ecovillaggi, altri sedici in costruzione e ventidue progetti.
Si va dalle 600 persone di Damanhur in Piemonte e del Popolo degli elfi sull’Appennino pistoiese, le più popolate comunità nostrane, alla ventina di residenti che in media ospita una comunità. Per Francesca Guidotti, curatrice del libro Ecovillaggi e cohousing, i progetti sono in crescita esponenziale, ma come spesso accade più del 50 per cento fallisce nei primi tre anni, perché molti non capiscono il reale impiego di energie richiesto per realizzarli. Di solito, mi spiega Francesca, chi mette l’economia in condivisione totale è molto più forte, anche se per il singolo c’è molto più rischio e in ogni caso non tutti sono fatti per una vita essenziale e semplice.
Una lunga esperienza
Sulle colline tra Perugia e Terni, c’è Utopiaggia, l’ecovillaggio più antico e longevo d’Italia. Nel 1972 Ingrid, Bernd, Ildiko, Barbara e altri ragazzi decidono di fondare una comunità “anarchica e umanistica” in Bassa Baviera. All’inizio portano avanti la comunità Barhof in Germania e poi acquistano cinque ruderi abbandonati con 100 ettari di terreno in Umbria (per 480 milioni di lire). È il 1982 quando la comunità si trasferisce in Italia. Oggi Ildiko ha i capelli bianchi ma la stessa energia di trent’anni fa. Vive con Franco, bolognese, in una delle case del villaggio, lei tinge lana e seta con tinte naturali e lui è un ex giornalista di Lotta continua che ora scrive di bioagricoltura.
Beviamo un tè in una stanza inondata di luce e piena di libri, dove dal soffitto a travi penzolano gomitoli colorati. La loro è una vita semplice e ormai relativamente libera da impegni comunitari. Le riunioni sono una volta al mese e al venerdì sera c’è una serata ricreativa dove si fa musica e si sta insieme. L’età media dei 19 residenti (di cui solo sette italiani) è ovviamente abbastanza alta, ma ora abbassata dalla presenza di cinque bambini. «Vivere in coppia in un posto così selvaggio e isolato può essere molto noioso», mi dice Ildiko, «invece così ci divertiamo di più. Purtroppo una parte dei nostri figli è tornata in Germania, ma anche quelli che sono rimasti in Italia hanno trovato lavoro fuori di qui. La crisi non ha aiutato e forse non siamo riusciti a essere abbastanza autosufficienti. Facciamo pane, formaggio, ceramiche, tessuti, abbiamo le pecore, ma non basta».
Si vede che Ildiko e Franco sono persone speciali, emanano una sorta di dolcezza del vivere, nonostante lo stile di vita estremo che conducono. Sarà l’assoluta mancanza di fondamentalismo con cui si esprimono. O la lunga esperienza.
Allegria composta
Non lontano da qui, a Passignano sul Trasimeno, c’è Panta Rei, che ha l’ambizione di essere un centro di educazione permanente. Siamo accolti in un ampio refettorio che somiglia a un rifugio di montagna, con la differenza che dalle enormi vetrate si vede il lago Trasimeno. Le tavolate sono occupate quasi interamente da una quarantina di “studenti” di permacultura. Mangiamo verdure dell’orto, riso alla zucca e una buonissima tisana al rosmarino. Visitiamo le casette che sono belle e luminose, una è costruita sull’albero, un’altra ha una serra dentro casa.
Più a valle si intravede un orto gigantesco. C’è una allegria composta nell’aria. Appare subito chiaro che Panta Rei non è solo un villaggio ecologico, ma ha da sempre una vocazione all’educazione ambientale. Già negli anni ottanta, Dino Mengucci aveva fondato la cooperativa Buona terra, una azienda agricola biologica e fattoria didattica (la prima in Italia). Nel 1995 Mengucci e compagni decidono di recuperare un’area abbandonata e danneggiata da un incendio e nasce così Panta Rei. Formato da un’ampia struttura ricettiva e da piccole casette fatte di terrapaglia e materiali di recupero, il villaggio è completamente sostenibile al livello energetico (l’acqua viene da un sistema di fitodepurazione o dalla raccolta piovana, l’energia dai pannelli solari). Panta Rei oggi offre ospitalità anche a grosse comitive di studenti o di adulti ed è attivo quasi tutto l’anno con corsi e seminari di permacultura, yoga, ecologia.
All’interno ci sono anche una falegnameria e una calzoleria. «Panta Rei vuole essere una scuola da zero a cento anni», dice Beppe, residente dal 2011 e oggi braccio destro di Mengucci nel coordinamento. «A noi interessa attivare processi cognitivi, anche solo insegnare ai bambini a usare l’acqua in un certo modo. Sono cose semplici, che sembrano elementari, invece non è scontato essere coscienti di ciò che puoi cambiare e ciò che non puoi cambiare. In realtà le uniche cose che non puoi cambiare sono la nascita e la morte».
Come Findhorn in Scozia, un ecovillaggio che è stato un modello un po’ per tutte queste realtà, anche questa struttura sul piano legale è un “trust” (che si differenzia dalla fondazione perché anche se cambiano i capi la destinazione finale del luogo rimane le stessa). «Non siamo interessati a modelli, siamo interessati al cambiamento. Tutto scorre, panta rei».
La città della luce è un posto molto noto tra chi conosce il reiki. Nasce infatti come centro per l’insegnamento di questa pratica di guarigione e come associazione culturale, nel 1996, a Genova, ma nel 2006 approda sulle colline di Ripe, nelle Marche, dove una antica dimora storica di 2.500 metri quadrati accoglie oggi la comunità composta da una trentina di persone tra cui anche nonni e bambini.
Al primo impatto La città della luce sembra una sorta di centro benessere del bionaturale: oltre al reiki, qui si può praticare l’ayurveda, le costellazioni familiari, lo yoga e la meditazione, si possono comprare creme, monili, abiti in fibre naturali. In effetti l’intento di questo gruppo è proprio quello di offrire al mondo un nuovo modello di società, i cui pilastri poggiano sul benessere dell’individuo.
Ci accoglie Tirtha (Chiara) che ha 29 anni ed emana una notevole luce naturale, ha i capelli color mogano e i tratti di una nativa americana. Tirtha ci accompagna a vedere la grande casa, con le varie sale del reiki, dell’ayurveda e il campo degli ulivi, dove d’estate si fa yoga all’aperto. Poi andiamo alla Casa dei ciliegi, una casa a pochi chilometri dalla sede, dove abitano altre persone tra cui due bambini di tre anni e due asini. Qui Dhara (Janneke) ci mostra l’orto sinergico e il chicken tractor. Qui è dove d’estate si fa la cerimonia del temazcal o sweat lodge, in una specie di capanna fatta di legno di salice con all’interno pietre roventi. Finito il pranzo, vero momento conviviale della comunità, mi torna in mente una scena di Arcadia di Lauren Groff.
Arcadia è un romanzo americano che racconta la storia di una comunità utopica, dalla sua nascita al suo declino, passando dai suoi momenti più gioiosi a quelli più tragici (tra l’altro il romanzo è liberamente e parzialmente ispirato proprio a The Farm). Come tutti i bei romanzi Arcadia è anche la storia di un sogno infranto.
Ripenso alla scena in cui il ragazzino protagonista, dopo essere cresciuto dentro la comunità, approda a New York e qui realizza che non è la campagna a rendere unico l’esperimento di Arcadia ma la vicinanza, la connessione tra le persone. Che è poi quello che manca nella nostra società.
Vedendo queste persone vivere e mangiare insieme in questa sala affacciata sulle colline marchigiane, penso che in fondo hanno trovato un modo per non stare sole.
Ripenso anche a ciò che mi aveva detto Lauren Groff qualche anno fa: «Il problema è l’utopia. Perché l’utopia è un paradosso. È un esercizio intellettuale, che non tiene conto della natura umana: se sono coinvolte persone con i loro casini, le loro stravaganze, anche gli ideali sono per forza un po’ diversi. L’esperimento utopico è destinato a fallire. E sono convinta che il fallimento sia ciò che rende questi esperimenti così vitali, così simili alla vita stessa. Questo non vuol dire che siano meno importanti o meno interessanti. Sono interessanti, proprio perché falliscono. Le comuni utopiche non sono altro che una metafora della vita stessa e, come la nostra vita, destinate alla morte».
Certo, perché la forza vitale dell’esperimento comunitario risiede proprio nella dicotomia tra l’ideale e il limite connaturato nella natura umana: per vivere in una comunità non solo bisogna condividerne l’ideale, ma anche accettare il limite dell’essere umano, di ogni essere umano.
La città verde
Sono tante le ragioni che fanno fallire questi esperimenti. Secondo Francesca Guidotti «una comunità muore quando non ci sono più gli strumenti o le energie per mettersi in discussione». In generale mi pare che le comunità resistano meglio se non si allargano troppo. «Se manca la libertà, l’esperimento muore», dice Jacopo Fo, che 37 anni fa ha fondato con alcuni amici la libera università di Alcatraz e da due anni ha dato vita al progetto Ecovillaggio solare, dove per ora vivono 14 persone.
«A noi piace fare le cose piccole. Niente rigidità, nessun credo. Vogliamo solo facilitare il trasferimento delle persone in campagna, poi ognuno vive come vuole». In realtà l’ecovillaggio solare è un progetto di ampio respiro, una vera è propria “città verde”, dove ognuno avrà la sua abitazione e terreno, con aree comuni come la piscina, un’area di coworking, una sala per gli spettacoli; la particolarità sono le case restaurate o realizzate con le tecniche ecosostenibili più all’avanguardia per il fabbisogno energetico, all’interno di un’area protetta.
«Non cambierai mai le cose combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realtà obsoleta», diceva l’architetto Richard Buckminster Fuller, l’inventore della cupola geodetica e pioniere del pensiero olistico e ambientalista. Se aveva ragione Fuller, allora gli ecovillaggi sono davvero dei modelli nuovi e dei tentativi di anticipare elementi di un mondo migliore nelle crepe di quello esistente.