Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto). Se i deputati di sinistra, di centro e perfino di destra avessero compreso questo non avrebbero certo potuto avallare il disegno di radicale spostamento dei poteri sul territorio operato dalla legge Lupi: come hanno fatto chi con il tranquillo consenso, chi con un’opposizione di mera facciata.
Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge (“bipartisan”, l’ha definita l’onorevole Mantini, autorevole esponente della Margherita). La norma chiave è l’articolo 5, comma 4: “Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”. Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, la maestra di Forlì, il contadino di Tricarico, il musicista di Sorrento, il salumaio di Norcia, la studentessa di Bologna? Oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.
Del resto, il rinvio al’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso agli onorevoli Iannuzzi, Realacci, Mantini, Sandri, Vigni, Chianale, Lion, firmatari della coraggiosa proposta di sostituzione di cui sopra, è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.
Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miope per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio. Nel sistema “innovativo” e “moderno”, largamente condiviso dai parlamentari di centro sinistra presenti nel lavoro di Commissione, le scelte sono cncordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7). Se leggete l'articolo di Sergio Brenna su ciò che sta avvenendo a Milano sulla base degli “obiettivi strategici” potete farvene un’idea.
Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo legislativo, che sarebbe giusto definire “pasticcio di legge”. Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili? Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane? Dell’articolo 5 si è già detto: esso è il centro dell’edificio.
L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Cancella il ruolo delle province. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendolo al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale (chi vuol capire come, legga gli scritti di di Gennaro e Scano in proposito). Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali.
L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”. Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).
L’articolo 8 (già ne abbiamo commentato uno svelamento) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari. Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!). Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”! Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.
Questo scritto diventa faticoso. I lettori mi perdoneranno, ma qualche ulteriore gioiello va esibito. Così l’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura). E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere "l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari). E infine – last but not least, oppure in cauda venenum, scelga il lettore la koiné moderna o quella classica – l’articolo 13, ultimo comma: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”. Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico: il “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso”: fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica.
Una precisazione: con buona pace di quanti sostengono che l’opposizione, in Parlamento, avrebbe fatto un ottimo lavoro e corretto positivamente il precedente testo cucinato dall’onorevole Lupi (amorevolmente assistito dall’onorevole Mantini), quest’ultimo comma è stato aggiunto nel dibattito in Aula, e le “opposizioni” (udite, udite) si sono astenute!
A questo punto mi sembra evidente che per i membri della Camera dei deputati, e per le formazioni politiche cui fanno riferimento, la filosofia della legge Lupi (quella che potremmo sinteticamente definire “la privatizzazione del governo del territorio”, oppure “tutto il potere agli immobiliaristi”) è pienamente accettabile: se fosse stata formulata meglio, se magari ci fosse stato qualche riferimento gli accordi di Kyoto o al problema delle risorse idriche, si sarebbe potuto anche votare più favorevolmente. Le voci contrarie sono davvero poche. Le troverete tutte qui, in eddyburg.it.
L'immagine è di Gabriele Picco