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Eddytoriale 122 (3 giugno 2009)
3 Giugno 2009
Eddytoriali 2008-2009

Non hanno forse raggiunto il loro obiettivo quanti si riconoscevano nella legge presentata (e ripresentata) dall’on. Maurizio Lupi? Non sono forse definitivamente sconfitti quanti, anche partendo da posizioni diverse, avevano trovato un punto di convergenza ragionevole nella proposta dell’on. Raffaella Mariani? Si direbbe di si, a guardare ciò che sta accadendo sul territorio. Proviamo a tracciare una panoramica.

Le Grandi opere

Si prosegue indefessamente a tessere sul telaio delle Grandi opere, e a cercar disperatamente quattrini per avviarne o completarne l’attuazione. Non sembra frenare l’impegno la circostanza che (per riferirci solo alle più emblematiche) il Pontone è in uno dei luoghi sismicamente più a rischio della Penisola; neppure quella che del MoSE non è stata ancora affatto dimostrata né verificata la possibilità tecnica di controllare davvero i flussi di marea in ingresso della Laguna. Il fatto è che attorno alle Grandi opere si saldano le due grandi divinità dell’Italia agli albori del Terzo millennio: l’Immagine e gli Affari. A queste due divinità sembra lecito sacrificare buon senso, ragionevolezza, prudenza, cura del bene comune, impiego parsimonioso delle risorse. Tutte virtù divenute ridicole di fronte al dominio di quelle due divinità, alle quali gli italiani sono stati indotti a inchinarsi devotamente. Che l’Immagine sia falsa e gli Affari sporcati dalla criminalità organizzata non conta. Che un volume di lavoro e d’impegno finanziario altrettanto se non più massiccio sarebbe indispensabile per una “manutenzione straordinaria” della penisola (a partire dalla messa in sicurezza di ciò che è a rischio, dalla bonifica di ciò che è avvelenato, dal restauro di ciò che è degradato, dall’adeguamento a livelli di civiltà minima dell’attrezzatura sociale) non sfiora le menti inebetite dalla contemplazione di quelle due divinità.

Le Grandi opere in Italia, secondo quelle menti ubriache, non hanno bisogno di pianificazione. Non hanno bisogno di contraddittorio, di verifiche, di coordinamento con altre esigenze e impieghi del territorio, di ascolto verso il basso. Anzi, temono tutto ciò come una jattura. Il modello di gestione del potere che richiedono è l’impero, non la democrazia. Se la sovranità promana dal popolo, ebbene, allora l’Imperatore è il popolo; le due figure coincidono, e l’Uno non rappresenta, ma coincide col multiplo: ne è l’unica espressione. Ecco allora che le Grandi opere (cioè la grande infrastrutturazione del paese, la sua ossatura, magari arricchita dalle New Towns alla Milano 2 e dall’addensarsi ai caselli di volumi direzionali, commerciali, ricettivi, ricreativi) sono terreno esclusivo di decisione del vertice, del governo e del suo Capo. Non c’è più bisogno di derogare alla pianificazione; basta dire che tutte queste opere sono decise dal Centro, con un semplice elenco, che poi esecutori fedeli (e imprese amiche) si preoccuperanno di tracciare sulle mappe e sui territori.

Il “decreto-casa”

Ma che cosa avviene sul resto del territorio? Lasceremo intatta la trama della pianificazione delle province e dei comuni? Per fortuna c’è la crisi: possiamo utilizzarla. Ma non come dicono gli utopisti, non per cominciare a comprendere che viviamo in un sistema inceppato che bisogna cambiare, ed è forse il momento opportuno per farlo. No, al contrario, utilizziamo l’alibi della crisi per infrangere le regole che ancora sussistono, là dove la pianificazione funziona, o potrebbe funzionare. Ecco allora la proposta del “decreto casa” berlusconiano. Riflettiamo un momento su come è andata la vicenda, che affanna le cronache da qualche mese.

Il 7 marzo scorso, nella sua reggia sarda, Berlusconi ha proclamato, d’intesa con i suoi viceré in Sardegna e nel Veneto, che per risolvere il problema della casa bisognava consentire a chiunque lo volesse (e fosse proprietario di un edificio) di ampliarlo col bricolage fai-da-te, oppure demolirlo e ricostruirlo, anche altrove, con cospicui aumenti di cubatura. Tutto ciò in deroga ai piani urbanistici e a ogni regola di tutela (se si esclude quella limitatissima delle leggi del 1939). Con Galan e Cappellacci ha discusso un articolato. Si sono levate proteste alte, soprattutto perché il provvedimento scavalcava le competenze delle Regioni, e non proprio tutte erano disposte a rinunciare alla pianificazione. Mentre Cappellacci rosicchiava i “lacci e lacciuoli” del piano paesaggistico che Soru gli aveva lasciato in eredità e Galan, primo della classe, elaborava un testo di legge regionale fedele al dettato del Sire, le regioni riuscivano a fermare il corso del decreto – la cui legittimità sarebbe stata subito contestata e avrebbe condotto al naufragio. Nella sostanza siamo d’accordo, dissero: occorre snellire, semplificare, rilanciare l’edilizia in funzione anticrisi; e nessuno potrà dirsi in disaccordo se si collegheranno in qualche modo le deroghe e gli incrementi edilizi a qualche miglioramento ecologico.

Cominciò così la faticosa ricerca di un accordo tra governo e regioni. All’accordo non si giunse, all’ultimo momento. Intanto era avvenuto il terremoto all’Aquila e in gran parte dell’Abruzzo, e aveva rivelato la miseria dell’edilizia più recente, l’inapplicazione delle norme antisismiche: i frutti tossici di uno sviluppo affidato al cemento facile e al mattone fragile. Lì si apriva un altro fronte di affermazione del nuovo modello di sviluppo territoriale: ripetiamo all’Aquila la tipologia Milano Due, facciamo tante New Town, e utilizziamo il proconsole unico, che smetta di gingillarsi con l’archeologia. Le New Town furono ridicolizzate, restarono Bertolaso e l’abbandono del modello virtuoso del Friuli e dell’Umbria (ricostruzione affidate alle istituzioni locali). Non si sa come andrà a finire, ma occhi attenti sorvegliano.

Intanto qualcosa succedeva nelle more della trattativa regioni-governo. Una regione di antica tradizione di buon governo, la Toscana, approvava una legge che eliminava l’aspetto più pericoloso del “decreto casa”: la deroga alla pianificazione. Dimostrava così che le regioni possono, se lo vogliono, comportarsi virtuosamente. Ma andava avanti anche il primo della classe. Nel Veneto approdava in Consiglio regionale una legge anche peggiore dell’iniziale decreto berlusconiano, e il contemporaneo Piano territoriale regionale rivelava in pieno la strategia: tutta la grande orditura del territorio nelle mani dei poteri forti, controllati dai governi; il resto del territorio, liberato dal maggior numero possibile di vincoli, lasciato in pasto alla speculazione normale: da quella grande e media, alla piccola e alla miserabile.

Cancelliamo il paesaggio

Ma il territorio non è condizionato solo dalle opere pubbliche e dalla pianificazione urbanistica. C’è anche la pianificazione paesaggistica, nella quale entrano - insieme alle regioni – anche quelle insopportabili rappresentanze degli interessi nazionali difesi dall’articolo 9 della Costituzione, espressi nell’autorità (debole, spesso accomodante, ma tuttavia troppo spesso estranea agli “interessi locali”) delle soprintendenze. E ci sono quei fastidiosi comitati, gruppi, associazioni, reti che protestano, che muovono i cittadini, che svelano e contropropongono. E allora che anche gli altri compari e comparielli si mettano al lavoro. Bondi prepari l’ammorbidimento del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e intanto riduca il peso, la competenza, il ruolo del personale tecnico del Mibac: non vorremo mica ripiegare sulla “tutela” e abbandonare alle regioni la “valorizzazione”. Le regioni non ce ne vorranno; anzi saranno liete se ridurremo il peso della tutela: questo potrà aiutarci a concordare un accordo sull’edilizia a maglie molto larghe, talché le regioni virtuose possano continuare (se proprio lo vogliono) a esserlo e a rispettare la pianificazione e il paesaggio, ma alle altre nessuno metta i bastoni tra le ruote: tra il modello toscano e quello veneto, la maggioranza dei vicerè saprà bene quale scegliere.

E gli altri ministri e parlamentari cerchino di ostacolare la possibilità di riunirsi all’aperto; preparino un provvedimento che consenta di rendere impossibile, perché troppo oneroso, il ricorso ai tribunali amministrativi a chi vuol protestare contro una scelta sbagliata; mettano la mordacchia alle voci troppo libere che inquinano l’opinione pubblica diffondendo informazioni vere ma controcorrente, nelle edicole o – peggio ancora - nella rete.

Una scintilla di speranza

Se così vanno le cose bisogna proprio essere inguaribili ottimisti per credere che abbia ancora senso approvare una legge che, comunque, stimoli la ripresa della pianificazione delle città e dei territori, che assuma ancora il metodo basato sul carattere sistemico delle scelte, sulla trasparenza del processo delle decisioni, sull’ascolto dei cittadini e la loro possibilità di influire sulle scelte come cardini e garanzia di trasformazioni del territorio sensate, e magari volte all’interesse generale.

Il fatto è che, al fondo del necessario pessimismo della ragione, brilla una scintilla di speranza sul fatto che, alla fine, un barlume di consapevolezza della posta in gioco si risvegli anche nell’intimo di chi – sull’uno e sull’altro versante dello schieramento parlamentare – condivide la responsabilità di governare. La posta è il futuro di noi tutti, poiché le nostre vite, e le vite dei nostri posteri, sono fortemente determinate dalle scelte sul territorio che si assumono oggi. Sono soltanto una piccola minoranza quelli che potranno rifugiarsi in una gated community, e non è detto affatto che lì vivano felici.

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