Non era stato facile mantenere e ri-affermare l’idea del Centro storico come bene comune, sia in senso culturale che economico, contro ogni tentativo post bellico di appropriazione da parte di interessi privati particolari fossero grandi banche o gruppi immobiliari o l’insieme degli interessi commerciali. E ciò nonostante che già Ricardo avesse individuato nell’insieme delle azioni dei singoli aggregati all’interno della città il fattore determinante del diverso valore della terra urbana rispetto a quella agricola circostante e nonostante il valore di custodia di un immaginario collettivo stratificato nel tempo fosse alla città riconosciuto da storici ed urbanisti e implicito nella cultura dei suoi abitanti negli stessi comportamenti “relazionali” con cui vie, piazze e edifici erano utilizzati.
Ne fa fede la difficoltà con cui agli inizi degli anni ‘70 Pierluigi Cervellati tentò e in parte realizzò a Bologna quella che resta una delle operazioni più ardite ed innovative dell’urbanistica italiana e cioè il recupero di pezzi di città storica sia in senso edilizio che socio culturale sottraendoli alla inevitabile deriva di un degrado fisico e/o funzionale assieme con l’espulsione dei ceti più deboli dal cuore della città. Operazione che letta con gli occhi dell’oggi appare ancora più meritoria e “politica” perché capace di affermare il diritto dei cittadini a non essere deprivati di un bene di cui la loro stessa presenza contribuiva a determinare il “valore”.
Ricordo bene, allora ero studente di quella Facoltà, lo scandalo con cui venne accolta dal prof. Piero Sanpaolesi titolare della cattedra di Restauro dei monumenti alla facoltà di Architettura di Firenze e suo Preside, la proposta avanzata dalle commissioni del movimento degli studenti di tenere un insegnamento sul tema del “Restauro/recupero dei centri storici” che da Bologna sembrava diffondersi come tema rilevante in tutte le città storiche.
Quella operazione ebbe seguito e imitatori di maggiore o minor successo persino fuori dai confini nazionali e conobbe anche in qualche caso una certa continuità di azione da parte delle istituzioni di alcune piccole, medie e grandi città italiane, ma la spinta politica e sociale per la conservazione del bene comune centro storico si spense a poco a poco certo non senza avere conosciuto momenti di vera e propria gloria come nel caso del netto prevalere dei sostenitori della chiusura al traffico veicolare del centro storico nel/i referendum a Bologna; e ciò contro una manifesta coalizione di interessi commerciali ed immobiliari e di egoismi privati. Certo gloria effimera chè non bastò a convincere il governo della città a darle seguito “cedendo”, letteralmente, il campo a chi il referendum aveva perduto, sia nel senso di adottarne il punto di vista che di progressivamente lasciare solo a quegli interessi e ai loro portatori la possibilità di avere parte sulle decisioni in merito.
Dalla vicenda bolognese esce una storia quasi paradigmatica della progressiva espropriazione alle società urbane del loro centro come luogo di incontro di discussione, di vita di relazione con gli altri e della consegna dello stesso alla prevalente funzione del consumo nei modi e con i tempi determinati dagli interessi economici degli operatori commerciali progressivamente affermantisi e/o imposti su qualsiasi altro interesse comune. Parabola che lì ha prodotto anche un Sindaco (Guazzaloca) “di settore” ma ovunque conseguenze oltrechè culturali e politiche anche urbanistiche rilevanti.
Gli spazi di vie piazze rese disponibili a qualunque manifestazione di valenza commerciale, il trionfo dei dehors senza regole né spaziali (transitabilità compromessa degli spazi pedonali), né estetiche (chiusura di prospettive visuali, uso di strutture e materiali incongrui con il contesto), né ambientali (sprechi energetici e di materiali), i ponteggi dei cantieri in corso divenuti enormi cartelloni o schermi pubblicitari. La vendita ai privati degli edifici del patrimonio pubblico o addirittura di spazi verdi e persino le ordinanze sindacali che vietano la sosta delle persone su scalinate, panchine, piazze
E ancora, lo spazio di vie e piazze conquistato definitivamente dall’automobile in moto o in sosta a vantaggio di pochi (chi compra il privilegio di vivere in centro compra anche il privilegio di parcheggiare sotto casa!?) e a scapito dei pedoni e della possibilità di un utilizzo “lento”, “gratuito”, “estatico” e “sostenibile”. Inciso: a Tokyo e Kyoto l’auto in centro può essere parcheggiata solo in spazi privati.
Non solo lo spazio pubblico del centro storico viene alienato ad uso privato in vari modi: concessioni d’uso, pagamento sosta, vendita spazi pubblicitari etc, ma addirittura negli sviluppi più recenti delle politiche del traffico (Sirio, Ecopass e simili) si ripropone in nuove forme la “enclosure” di un “common” (le barriere tecnologiche immateriali hanno sostituito i recinti e le siepi) vendendone il diritto di accesso a chi ha la possibilità di comprarlo
Piano piano il bene comune posseduto dalla comunità urbana e disponibile per tutti, da usare e godere spesso insieme, è diventato uno spazio contenitore di beni da consumare in modo individuale e discriminato. L’allontanamento dal centro storico degli spazi in cui si potesse consumare il delitto di una produzione culturale alternativa e autogestita (centri sociali e spazi liberi) o addirittura praticare modalità di abitare “diversi” (case occupate o comunitarie) è stata l’azione generalizzata di complemento delle amministrazioni urbane.
Non so dove sia stato coniato per la prima volta il taxon con cui vengono ora connotati i centri storici soprattutto in Toscana e in Emilia: “Centro Commerciale Naturale”; accomuna su cartelli, mappe e pieghevoli di produzione istituzionale San Quirico d’Orcia a Pienza, Vignola e Reggio Emilia, solo per esemplificare. Certo l’inventiva promozionale usata dalla sinistra (?) che governa quelle terre a ricreare per lo “sciame inquieto” ( come lo definisce Z. Bauman) dei consumatori lo stesso appeal che hanno ipermercati e città degli outlets, trasformando il Centro Storico in Centro Commerciale Naturale, denota una sicura convergenza con l’ideologia mercantile che anche il centro destra promuove nelle città da lui governate..
Così si esprime l’appello contro la chiusura di COX 18 uno spazio milanese animato da Primo Moroni: “Lo stesso centro storico da tribuna delle idee e di incontro è stato progressivamente trasformato in un luogo destinato solo al consumo opulento, a vetrina infiocchettata della moda” (il manifesto 29/01/2009 pag.20).
La distruzione di un immaginario condiviso che vedeva il centro storico come bene comune si consuma così in un bipartisan silenzio rotto da rare e flebili voci. Ad epigrafe si potrebbe adoperare la scritta apposta da “mano criminale” proprio a Milano su un divieto di accesso alla zona ecopass:
“ZONA A PENSIERO LIMITATO”. (M. Philopat, Il primo amore. Il cuore eretico di Milano, in il manifesto cit)