Data fatidica, l’otto settembre! Anche nel sito eddyburg è stato riprodotto un pezzo di Alberto Asor Rosa, da il manifesto dell’8/09/2010 che, con il titolo “L’Italia di mezzo c’è, ma non si vede”, affronta il tema della rappresentazione di quella fascia del nostro paese che rimane, compresa fra il meridione disastrato e problematico e le regioni subalpine tentate dalla secessione.
Certo, le regioni in cui si articola la Repubblica Italiana risentono della volonterosa e patriottica casualità con cui furono disegnati, sulla carta, i compartimenti statistici da Piero Maestri che presiedeva ai censimenti del nascente Regno dal 1860. Seguì i confini comunali e provinciali e quelli degli antichi stati ed usò dei nomi di ispirazione classica, cercando per quanto possibile di cancellare le tracce di “antichi servaggi”. In qualche caso andò giù con la mano pesante: la sinistra storica proponeva un sistema di leva militare territoriale, alla tedesca e per esorcizzare la minaccia repubblicana latente fra reparti di coscritti romagnoli, la Romagna fu smembrata fra Emilia e Marche, e anche un po’ di Toscana, accorpandola con aree di tradizioni meno turbolente.
Poi dai primi del 1900 si cominciò a chiamarle “Regioni”, attribuendovi anche specificità storiche e folkloriche distinte, illustrate e rese popolari nelle esposizioni nazionali ed internazionali del nuovo secolo, finché la Costituente non se le trovò pressappoco definite e ne fece l’ossatura del nuovo assetto istituzionale. Quel che è fatto è fatto, ed ora sembra ragionevole, a parte qualche modesta correzione di confini, lasciare tutto com’è e cercare di trarne ogni opportunità.
L’Italia di mezzo indicata da Asor Rosa, comprenderebbe a nord l’Emilia-Romagna e a sud il Lazio, ma potrebbe estendersi anche all’Abruzzo che, aggregato tradizionalmente alle regioni del Meridione in quanto parte dell’ex regno borbonico, è più assimilabile ai caratteri dell’Italia Centrale. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, le affinità con le altre regioni sono più storico politiche che geografiche, se non per la comune dorsale appenninica. Ciò che può accomunare questo territorio è soprattutto la struttura reticolare di centri urbani di taglia varia, il paesaggio costiero e il fertile rapporto fra le città e le loro campagne. La storia poi di queste regioni di antiche autonomie mostra un loro secolare, anche se spesso critico e burrascoso, rapporto con Roma, in tutte le fasi dall’età imperiale a quella papale e allo stato unitario. Ove si manifestasse una forma di solidarietà e di programmazione comune, l’insieme di queste regioni può assumere una funzione di collante rispetto ai divergenti impulsi delle aree più lontane dalla Capitale.
Asor Rosa tuttavia non si abbandona a prematuri entusiasmi e segnala gli aspetti contingenti che ostacolerebbero una efficace politica congiunta delle regioni centrali: il degrado delle forze politiche (democratiche-progressiste) che hanno finora garantito la stabilità amministrativa di queste regioni; lo scarso peso che questi fedeli elettorati riescono ad esprimere come sulle scelte di dirigenza, parlamentare e governativa.
La tesi fin qui esposta non è una bizzarra e solitaria elucubrazione, ma sviluppa qualcosa che sembra già in cammino. Ha risposto (su il manifesto 16/09) Andrea Barducci, Presidente della Toscana, ricordando che alcuni presidenti ed assessori di Toscana, Marche, Umbria, Emilia- Romagna e Lazio si sono incontrati nell’ottobre dello scorso anno il per redigere un documento, il “Patto di Cagli” ed istituire un coordinamento su indirizzi di azione comune.
I temi del Patto sono:
1) – Come questi territori rispondono alla crisi economica, sia per le politiche di resistenza che per le politiche di innovazione;
2) - La necessità di modernizzazione delle infrastrutture, sia su gomma sia su ferro;
3) - L’esigenza di progettare, sempre più insieme, questa parte del paese per intercettare le opportunità che provengono dall’Europa, pensando quest’area come una macro regione europea;
4) – Federalismo fiscale, che oggi appare solo come una cornice: nei prossimi mesi andrà riempito di contenuti, criteri e risorse;
5) – La necessità di coordinare gli interventi nelle zone di confine con particolare attenzione alla fascia appenninica;
6) – L’urgenza di rafforzare gli investimenti nel settore della formazione e alla stesso tempo garantire una presenza, la più capillare possibile, dell’offerta didattica;
7) – Coordinamento delle iniziative celebrative nel centro Italia, per il 150° anniversario dell’unità, al fine di rafforzare simbolicamente il ruolo di questi territori come cerniera che tiene insieme l’intero paese.
Barducci ribadisce le qualità di queste regioni virtuose, il loro contributo all’innovazione amministrativa, il loro sistema socio-economico diffuso e solidale, la resistenza alla crisi economica con il mantenimento della coesione sociale, del welfare sostenibile e delle istituzioni per la formazione. Su tali basi esse potranno accettare la sfida e sviluppare un modello riproducibile per tutto il Paese.
Ma già un paio di giorni prima, sempre sullo stesso quotidiano, Sergio Sinigaglia era intervenuto segnalando i seri limiti del buon governo dei post-comunisti. La geopolitica dell’Italia Mediana rende stimolante la proposta, ma non tiene conto del progressivo calo di efficacia, efficienza e consenso del governo democratico-progressista di quelle regioni. Senza risalire ai conflitti, ai conformismi degli anni 70, allo sviluppo quantitativo e non sostenibile di quella economia e di quel territorio, Sinigaglia denuncia la logica sviluppista e delle grandi opere che ha imperversato fra gli amministratori ulivisti e dalla quale le stesse dirigenze non riescono tuttora a staccarsi mentre il tessuto civile si sta sfilacciando e non tiene, fra disaffezione e tentazioni securitarie, davanti alla insinuante penetrazione leghista.
Secondo me si può dire anche di più: il Patto, un anno fa, era già in forte ritardo rispetto alla “occasione storica” nella quale le regioni amministrate dai democratici-progressisti avrebbero potuto porre un ragionevole argine alla deriva secessionista della Lega e porgere una mano solidale al Meridione. Purtroppo il “gran partito” e i suoi nuovi amici erano in tutt’altre faccende affaccendati, al centro con i bei risultati che si son visti e nella periferia a intestardirsi in una governance e in un tipo di sviluppo giunto da tempo alle fase finale.
Alla denuncia di Sinigaglia si potrebbero aggiungere esempi su esempi: dal primato nella privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni alla pratica degli accordi che svilisce la pianificazione urbanistica, dalle scelte autostradali devastanti (il Passante di Bologna) al ritardo incolmabile del trasporto pubblico e alla proliferazione di inceneritori, per non parlare degli imbarazzanti risvolti nei vaudeville del Comune di Bologna e della Regione Lazio.
La stessa organizzazione economica che strutturava la rete solidaristica delle regioni “rosse” si degrada, fra la Coop che “non sei più tu” e l’Unipol che “abbiamo una banca”, mentre gli eredi delle cooperative muratori di Bologna e Ravenna aspirano a tuffarsi in dubbie avventure, fra cui la Val di Susa e il Dal Molin.
Un’altra occasione perduta, quindi? Un’altra spugna da gettare? Forse, ma non senza prima aver tentato. Mentre il berlusconismo si scompone come un pugile suonato, c’è forse ancora una possibilità per le quattro Regioni a presidenza democratico- progressista: riunirsi nell’anniversario del “Patto di Cagli” e, solidalmente, avviare una politica coordinata e diversa che le riavvicini alle istanze diffuse del “nuovo mondo possibile e necessario” avviando, in grande scala, quel processo di transizione ad una diversa economia che alcuni Sindaci coraggiosi stanno tentando, assieme a nuove forze vive che li pungolano e sostengono.
Può sorgere un nucleo dell’Italia di mezzo che abbandoni lo sviluppo velleitario e contrasti i ricatti dei potentati, appellandosi alla iniziativa dei Comuni e alla partecipazione dei cittadini per realizzare dei nostri bellissimi territori, delle preziose città, delle antiche e prestigiose istituzioni, un modello di politica locale. Esso avrebbe la capacità di attrarre anche le altre regioni, dall’Abruzzo terremotato e saccheggiato al Lazio in crisi perenne con la costruzione di una alternativa di convivenza civile anche nel federalismo solidale, come è nei voti di tutti gli interventi che ho citato.
Allora avrebbe ragione Alberto Asor Rosa, ed io con lui, a confidare nella forza misteriosa ed epica di questi paesaggi, di queste antiche autonomie, di queste vecchie lotte di popolo, di quell’ Italia umile «per cui morir la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute».