Tanto si è detto a proposito dell’occupazione della Torre Galfa, tanto si dirà, su una vicenda che tra l’altro è in pieno svolgimento. Il tema non è nuovo nella politica cittadina. La Lega al governo di Milano, per fare un esempio, riempì la sua altrimenti vuota agenda politica di proclami contro il “vecchio” Leoncavallo. Il fatto che Macao sia sorto sotto la Giunta Pisapia fa sperare che – nonostante le evidenti esitazioni dei giorni scorsi – l’intero tema possa essere inquadrato in un’ottica nuova, più evoluta e appropriata a quelli che sono gli interessi in gioco, che non sono e non possono essere quelli della sola proprietà (e ciò a prescindere dalla antipatia che può suscitare Ligresti e il suo gruppo). Il fatto è che una città è un corpo vivo, e le sue parti, i suoi palazzi, spazi, parchi, strade, manufatti di qualsiasi genere ne sono le membra.
E dunque la proprietà privata va certamente tutelata e garantita, ma nell’ambito di un’ottica generale di governo del territorio, nell’interesse di tutti i cittadini e degli stessi proprietari. Dopo decenni passati a discutere di responsabilità sociale dell’impresa, in termini spesso troppo astratti perché potessero incidere davvero sul mondo reale, il rapporto tra immobiliaristi e città – con riferimento specifico alla vicenda Galfa – consente di calare finalmente la questione nella realtà. Il fatto che grandi edifici giacciano abbandonati per anni nel cuore della città non è questione che riguarda solo la proprietà, come potrebbe essere il caso di un ninnolo lasciato ad ammuffire in soffitta dal suo trascurato proprietario. Il richiamo alle questioni del latifondo del sud Italia a chi scrive appare immediato. Anche lì si invocava l’applicazione della legge contro i contadini che occupavano abusivamente terreni che però i proprietari lasciavano totalmente incolti e abbandonati mentre le manovalanze pativano la fame.
La legalità ha un senso se attraverso il rispetto delle regole viene tutelato sì il diritto di una parte, ma senza che al contempo venga leso l’interesse comune. Se l’applicazione di una norma crea ingiustizie e problemi sociali è la norma che deve essere cambiata, non la società. Il saccheggio perpetrato ai danni del territorio e delle nostre città da immobiliaristi in passato appoggiati dalle amministrazioni pubbliche è sotto l’evidenza di tutti. Interi quartieri e cantieri nuovi pressoché vuoti o mai terminati, nessuna area verde per la città se non qualche albero qua e là che ci viene spacciato come giardino metropolitano. Progetti immobiliari avveniristici in piena crisi economica, di cui la bolla immobiliare peraltro è una concausa non certo secondaria. Nessuno, anche se proprietario, può aver il diritto di sequestrare alla comunità intere aree permettendosi di abbandonarle al degrado più totale, perché l’incuria finisce sempre per tracimare dal perimetro della proprietà trascurata, per riversarsi sui quartieri limitrofi a danno della popolazione che in quel territorio vive.
Non sarà forse il caso di Ligresti, a nessuno interessa oggi personalizzare la vicenda, ma a chi ha osservato le dinamiche degli ultimi anni lo schema appare chiaro. Attraverso il mio immobile che lentamente degrada e contamina il territorio circostante lascio che l’esasperazione degli abitanti cresca, che quel relitto li faccia sentire meno sicuri, meno felici, meno cittadini. Quando la situazione è matura mi presento, io proprietario (e dunque artefice primo di quel degrado), come salvatore, propongo un progetto di risanamento dell’area partendo dal mio immobile, così il comune mi concede cubature in più ed io monetizzo, facendo piccole regalie alla comunità, come una rotonda, una piccola pista ciclabile, o asfaltando un pezzo di strada. Questo modello di sviluppo a iniziativa privata deve cessare.
La città non è dei grandi proprietari. La città è di tutti. Pisapia ha un compito, se vuole dare un senso al suo governo: progettare una città diversa. Per farlo deve dialogare con chi propone, con chi è attivo affinché questa città rinasca e si possa ricostruire, non attraverso nuovi quartieri, ma attraverso nuova cultura. E questo compito non si adempie sgomberando con la forza pubblica chi vuole una città migliore, ma condividendo un progetto con i cittadini stanchi delle vecchie logiche, per anni spacciate come pensiero unico del libero mercato.
postilla
Corrado e Nicosia hanno ragione quando propongono l'analogia tra la questione odierna dei grandi complessi immobiliari nelle grandi aree urbane e quella - di mezzo secolo fa - dei latifondi nell'Italia centrale e meridionale, questi e quelli in preda all'abbandono e alla rapina della rendita (allora si chiamava assenteista). In entrambi i casi è inaccettabile che spazi essenziali per la vita della società siano sottratti all’utilizzazione più opportuna per le esigenze della civitas e lasciati in pasto alle decisioni della proprietà.Il fatto è che in Italia, fino a pochi decenni fa, queste leggi esistevano ed esistevano i loro strumenti e metodi. Esisteva la pianificazione urbanistica, nata nel 1942 e riformata nei decenni sessanta e settanta. Esisteva il potere dell'amministrazione pubblica di decidere le destinazioni d'uso più opportune in relazione a un progetto di città democraticamente deliberato. Esisteva, grazie alla legge Bucalossi del 1977, l'obbligo dei proprietari di attuare gli interventi previsti dai piani urbanistici e inseriti nei programmi pluriennali di attuazione. Il fatto è che a partire dagli orribili anni ottanta questo insieme di leggi e di strumenti è stato progressivamente smantellato nel silenzio e spesso nella complice compiacenza della parte maggioritaria della cultura urbanistica e della totalità della cultura politica. Per quanto riguarda il resto dell'intellettualità italiana, essa ha spesso denunciato i guasti prodotti al bel paese, al territorio, all'ambiente, ma si è raramente chinata a occuparsi degli strumenti della pianificazione urbanistica (vogliamo ricordare quella rara avis che fu Antonio Cederna). Forse sarebbe ora di cominciare a farlo visto che i danni gravissimi provocati dall'uccisione del governo pubblico delle trasformazioni del territorio, dei sui principi metodi e strumenti.
Sarebbe bello, e anche utile, se il sindaco Pisapia organizzasse una pubblica riflessione per ricordare quel grande milanese che fu Pietro Bucalossi (nella foto in homepage: Sindaco di Milano negli anni '60 e Ministro dei Lavori Pubblici nei '70) , per raccontare ai contemporanei le fondamenta e il contenuto del suo tentativo, le ragioni e i modi in cui il suo progetto di migliore governo pubblico del territorio fu gradualmente smantellato. Se il sindaco raccogliesse questo invito, eddyburg sarebbe lieto di collaborare.