Premessa troppo lunga, questa (ma infine si riconoscerà pertinente), a un rilievo di palese legittimità costituzionale della proposta di legge recentemente deliberata dalla giunta della regione Emilia – Romagna che detta norme per la ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto del maggio scorso. Certamente un principio fondamentalissimo, se si potesse dire, si deve cogliere nell’articolo 7 della gloriosa legge 1150 del 1942, come fu modificato dalla legge 1187 del 1968 (di temporaneità dei vincoli allora si trattava) sul “contenuto del piano generale” che segna una vera e propria conquista dell’urbanistica, con il riconoscimento che compito essenziale della pianificazione territoriale è la tutela dei valori di cultura espressi nei luoghi di vita, attraverso “vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale, paesistico”. Vincoli forti, questi, non soggetti a decadenza, concorrenti con quelli delle leggi di settore affidati alla gestione del ministero per i beni culturali, e rispetto ad essi (puntuali e selettivi che isolano il bene protetto dal suo contesto) perfino più efficaci. Una potestà autonoma dalla legge statale affidata al comune, primario titolare della potestà di governo (oggi diciamo) del proprio territorio. Una attribuzione incomprimibile e una legge regionale che sopprima le tutele poste dal comune nell’esercizio della sua autonomia viola un principio fondamentale che limita la potestà legislativa delle regioni, dunque trasgredisce una regola costituzionale .
In Emilia - Romagna quella attribuzione è stata generalmente esercitata dai comuni con convinzione, attraverso la introduzione di vincoli conservativi estesi agli interi tessuti edilizi autentici dei centri storici, scrupolosamente normati (spesso perfino più rigorosamente rispetto alla libera incontrollabile discrezione delle soprintendenze) anche con la prescrizione di fedeli ricostruzioni nei casi di eventuali demolizioni, fortuite o intenzionali che fossero. Ebbene, la proposta legge regionale sopprime i vincoli di tutela posti dai piani regolatori dei comuni terremotati (nell’esercizio di quella autonoma potestà) sugli edifici riconosciuti “di interesse storico-architettonico, culturale e testimoniale” se essi siano “interamente crollati a causa del sisma ovvero siano gravemente danneggiati e non recuperabili se non attraverso demolizione e ricostruzione”. “La disciplina di tutela stabilita dalla pianificazione urbanistica” in questi casi “si intende decaduta”. Dunque libera sarà la ricostruzione, o secondo parametri planovolumetrici determinati per nuova convenzione. E come apprendiamo con preoccupazione dalle dichiarazioni impegnative di chi spende nei luoghi del terremoto la responsabilità del ministero dei beni culturali, si vogliono introdurre non poche eccezioni al principio della ricostruzione degli edifici formalmente tutelati, se siano stati gravemente danneggiati dal sisma. Di edifici religiosi “crollati”, prevalentemente si parla, per il cui destino si ipotizzano estrose manipolazioni, affidate magari a concorsi internazionali. Ma l’attuazione di un simile proposito trova un ostacolo nella vigente disciplina dei piani regolatori, sicché l’amministrazione dei beni culturali paradossalmente ha bisogno di una legge regionale che sciolga dalla prescrizione conservativa, in una perversa alleanza contro il principio fondamentale di una urbanistica che aveva saputo rivendicare il compito irrinunciabile di tutelare la storia delle nostre città.
C’è dunque da temere che gli assopiti controlli governativi sulla legittimità costituzionale delle leggi urbanistiche regionali non troverebbero ragione di destarsi, se questa proposta della giunta trovasse il consenso dell’assemblea della regione Emilia Romagna.