In questi giorni sta circolando sui mezzi d’informazione di massa un’interpretazione del voto lombardo che attribuisce agli elettori delle aree urbane una propensione per lo schieramento di centro sinistra, contrariamente a quelli delle zone rurali che avrebbero determinato la vittoria del centro destra. Il dualismo dipende dal fatto che in 11 città capoluogo su 12 (unica eccezione Varese dove è nato e vive Maroni) ha prevalso la coalizione guidata da Umberto Ambrosoli, mentre nel resto della regione ha ottenuto più voti lo schieramento capeggiato da Roberto Maroni. Lo schema interpretativo si è presto diffuso e vi è stato chi, come Aldo Bonomi, ha addirittura parlato di città contrapposta al contado, luogo delle libertà civiche il primo e della servitù della gleba il secondo. La formula e le sue pittoresche varianti, a furia di ripetizioni stanno diventando senso comune. Tuttavia il territorio lombardo, anche solo in relazione ai risultati elettorali, è molto più complesso di come lo si vuole dipingere.
La prima considerazione riguarda l’utilizzo di due concetti dati per scontati. C’è la presunzione di credere che tutti sappiano riconoscere il confine tra città e campagna. A ciò si aggiunge il lasciar passare sotto traccia un giudizio sul grado di sviluppo civile di chi sta dentro o fuori le immaginarie mura che separano l’una dall’altra. Da una parte sta chi desidera il cambiamento, gli innovativi, coloro che hanno capito che la più grande e sviluppata regione d’Italia non può continuare ad essere governata da personaggi politici ampiamente coinvolti in scandali e propensi a lasciarsi tentare dal malaffare. Dall’altra ci sono i conservatori dello status quo, quelli che ritengono immutabili sia la classe politica che i suoi naturali comportamenti, quindi meglio tenersi coloro che già si conoscono.
Chi propone lo schema poi non sembra accorgersi del fatto che il territorio regionale sia tra i più urbanizzati d’Europa. E’ difficile uscire dalle aree urbane se si percorrono i 250 chilometri lungo i quali sono distribuite le province di Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia, con i loro 4,2 milioni di abitanti. E, appena sotto la diagonale disegnata da questo itinerario, altri 4 milioni vivono nell’area metropolitana milanese, le cui propaggini si estendono fino alle province di Pavia, Lodi e Cremona. Tenuto conto di questi numeri, ed al netto dei centri urbani delle province della pianura e della alpina Sondrio, è assai probabile che gli oltre 2,4 milioni di elettori che hanno fatto vincere la coalizione di centro destra non siano necessariamente confinati in qualcosa di identificabile come campagna. Se sicuramente il voto leghista e di destra ha prevalso nelle poco abitate valli alpine e prealpine, non bisogna però dare per scontato che il fenomeno riguardi solo marginalmente la città metropolitana milanese o l’estesa rete di aree urbane di cui essa è il centro.
Lungi dal voler proporre uno schema interpretativo in antitesi a quello città/campagna, si può comunque cercare di capire qualcosa di più sul voto lombardo mappandone la distribuzione territoriale. Le due province dove ha prevalso la coalizione di centro sinistra, cioè Milano e Mantova, con le loro profonde diversità, sono state a questo riguardo analizzate. La domanda alla quale s’intende rispondere è se la presunta polarizzazione del voto tra aree urbane di centro sinistra e zone rurali di centro destra abbia qualche ragion d’essere in questi due casi, malgrado le differenti caratteristiche insediative.
Iniziamo dalla provincia di Mantova dove l’unica area urbana di dimensioni significative, dentro la quale si concentra buona parte l’elettorato di centro sinistra, è quella dove si trova la città capoluogo. Nel Mantovano tuttavia la polarizzazione territoriale del voto ha una precisa connotazione geografica che non passa dall’immaginario confine città/campagna. Il nord-ovest della provincia è quasi interamente di centro destra, mentre della zona centrale e sudorientale, prevale il voto al centro sinistra. L’area demograficamente più forte, cioè la conurbazione di Mantova, da sola non sarebbe stata in grado di determinare il risultato complessivo provinciale se non si fosse aggiunto il vasto settore ad alta vocazione agricola che dal capoluogo si estende verso i confini con l’Emilia Romagna e con la provincia di Rovigo. E’ qui che si trova Pegognaga, dove si produce il latte per il Parmigiano Reggiano, i bovini sono una volta e mezza gli umani, e la coalizione di centro sinistra ha raggiunto il 60% dei consensi.
Anche nel caso della provincia di Milano, che dal 1 gennaio 2014 diventerà Città Metropolitana insieme a quella di Monza e Brianza, il voto si distribuisce tra i due schieramenti seguendo un criterio geografico. Nel settore occidentale, che ha come confine il corso del Ticino, prevale il voto al centro destra, mentre quello orientale, con in mezzo il capoluogo, vota in maggioranza per il centro sinistra. Se si analizza il risultato elettorale dentro i confini del futuro ente territoriale si scopre che a favore del centro destra sono tutti i comuni brianzoli a nord del capoluogo. Si tratta del territorio metropolitano più intensamente urbanizzato, con punte di 84% di suolo utilizzato per attività antropiche. Al contrario ad est di Milano, nel Vimercatese e nella zona del Naviglio Martesana, dove gli ambienti e le produzioni agricole hanno ancora spazio, prevale il voto di centro sinistra.
Che relazione c’è dunque tra le caratteristiche territoriali e la distribuzione del voto nelle due province lombarde esaminate? Perché, rimanendo in ambito metropolitano, i comuni uniti a Milano dalla strada del Sempione e tra loro dalle stesse caratteristiche insediative, si scoprono divisi riguardo al voto? Cosa determina i confini tra una parte e l’altra dello schieramento elettorale negli apparentemente sconfinati territori della Pianura Padana?
E’ probabile che per comprendere la propensione di un comune o di un ambito geografico a votare in un modo piuttosto che in un altro si debbano utilizzare termini come radicamento e continuità amministrativa, che forse da molte parti valgono di più di qualsiasi altro aspetto utile ad interpretare il risultato elettorale. Vi sono poi considerazioni di carattere socio-economico che hanno a che fare con i sistemi insediativi, con la diffusione della attività produttive e di servizio, con la presenza di infrastrutture per il trasporto, di istituzioni formative e culturali, di attrezzature per lo sport, di cinema, teatri e luoghi d’incontro. Insomma con gli aspetti che in generale determinano la ricchezza dei territori in termini di opportunità per chi li abita.
In ogni caso la risposta andrebbe preceduta da un’analisi seria che eviti le semplificazioni fatte a colpi di concetti difficilmente applicabili. A giudicare da questa parziale mappatura forse si potrebbero utilizzare termini come centro e periferia per provare ad interpretare la distribuzione del voto. Ha senso pensare che in Lombardia là dove sulla città prevale la dispersione insediativa, dove lo sviluppo economico si è quantitativamente diffuso ma mai qualitativamente connotato, i cittadini diano di se, tramite il voto conservatore, una rappresentazione periferica, marginale, arretrata rispetto al procedere del cambiamento,? E dall’altra parte, si può ipotizzare che là dove si sta cominciando a discutere di qualità dello sviluppo, dove si sta tentando di associare il concetto di sostenibilità al governo del territorio, dove esiste una qualche strategia per il futuro a vantaggio di tutti, sia prevalsa la volontà di cambiare perché già ci si sente al centro del cambiamento?