In questi giorni così drammaticamente difficili per la politica veneta non si arresta il flusso di notizie che confermano ciò che molti di noi già da tempo pensavano e denunciavano. In questo traboccare di evidenze fanno sorridere (di un sorriso amaro, si intende) gli strenui tentativi di autodifesa messi in campo da alcuni esponenti della classe dirigente locale e nazionale basati sulla consumata e poco efficace strategia dell’ additare alcune mele marce, per definizione sempre molto poche, considerandole un’eccezione rispetto ad una realtà sociale che si vuole e si professa diversa perché onesta, operosa, legata alla propria terra e alle proprie tradizioni, sensibile alla cultura e all’arte ...... Che dire? Agli occhi di coloro che le distinzioni le vogliono fare sul serio e che credono nell’utilità di cogliere questo momento per fare una profonda, magari anche dolorosa, autocritica emerge, al contrario, l’immagine di una società e di una politica profondamente malate, in mano a portatori di interessi esclusivi e autoreferenziali che per lungo tempo hanno imposto a tutti e su tutti le loro regole.
E voglio soffermarmi su un aspetto solo apparentemente laterale, che però interroga prepotentemente le responsabilità intellettuali e gli statuti dell’attività culturale e di ricerca, spesso piegate a interessi speculativi e di potere alle quali garantiscono copertura senza poi farsi alcun carico delle pesanti conseguenze che questa complice sudditanza comporta.
La scena di questo connubio è Vicenza crocevia di tante storie che andrebbero meglio approfondite per comprendere i riflessi che una città di provincia, placidamente autocompiaciuta, è in grado di produrre sulla scena nazionale e internazionale. Tra le notizie di contorno che meritano, a mio parere, di essere portate in maggiore evidenza ci sono le dimissioni del presidente del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio, l’eurodeputata di Forza Italia Amalia Sartori, sulla quale pende una richiesta di arresto della magistratura veneziana. Dimissioni irrevocabili, come recita il comunicato stampa diffuso il 5 giugno dai suoi avvocati, e per questo tempestivamente accolte come si evince dalla pagina del sito dell’istituzione culturale nella quale spicca il vuoto lasciato dalla brusca cancellazione del suo nome (http://www.palladiomuseum.org/it/cisa/). Ma se il presidente del CISA si dissolve perché, come leggiamo dalle cronache dei giornali, la sua immagine è macchiata da pesanti accuse, nulla accade al Consiglio di amministrazione, in cui campeggiano figure di notabili locali che occupano posizioni di massimo rilievo anche in altre istituzioni culturali vicentine (si pensi ad esempio a Flavio Albanese oppure Franco Luigi Bottio). Tace un organismo che per anni ha lavorato a fianco di quello stesso presidente gestendo le risorse prodotte in prima istanza dai soci fondatori (enti pubblici), ma anche e sempre di più da soci sostenitori, aziende private tra i quali spiccano l’Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro e Palladio Finanziaria, coinvolte nelle inchieste giudiziarie di Expo e Mose e altre.
Nessun segnale neppure dal suo direttore, Guido Beltramini, né tanto meno dal suo blasonato consiglio scientifico presieduto dallo storico britannico Howard Burns (professore emerito della Scuola Normale di Pisa) dove siedono alcuni dei più importanti studiosi di storia dell’architettura in rappresentanza di prestigiosissime istituzioni accademiche internazionali (http://www.palladiomuseum.org/it/cisa/consiglio).
Ho riflettuto più di una volta su questa strana, addirittura incestuosa, composizione di interessi: da un lato lo studio e la ricerca nel campo dell’architettura palladiana e rinascimentale perseguito con eburneo distacco dai nostri illustrissimi accademici e dall’altro il pragmatico, diciamo pure cinico, agire degli interessi politici ed economici che, come ci mostrano le cronache giornalistiche, ruotano in prevalenza attorno all’industria delle costruzioni. Mi sono chiesta quali conseguenze implicite hanno possono aver avuto causato in passato, e sono in grado di provocare ancora oggi, gli imbarazzanti silenzi di persone che per ruolo pubblico e statura culturale, magari richiamandosi ad un’etica d’altri tempi ora frettolosamente rottamata, avrebbero avuto il dovere di manifestare in tutti i modi e con tutti i mezzi la massima indignazione nei confronti dell’aggressione al territorio e al paesaggio a cui la nostra città è stata sottoposta nell’ultimo ventennio e che si sta consumando in vari modi tra progetti edilizi e visionarie opere infrastrutturali. Una vocazione allo sfregio stolto e miope che trova sintesi in quell’enorme mostro edilizio precariamente aggrappato alla penisola di Borgo Berga. Per molti cittadini, ma anche per i conoscitori di Vicenza, dell’unicità della sua storia e della sua arte, si tratta senza dubbio dell’atto più assurdo, del danno più volgare perpetrato al nostro contesto paesaggistico, quello stesso paesaggio che ha ispirato l’architettura palladiana e che costituisce un tutt’uno – come egregiamente continuano a spiegare gli esperti nei loro saggi e nei loro libri – con il valore monumentale delle singole opere.
Un sacco voluto e organizzato da pochi, espressione di una sete speculativa senza pari. Pochi e ben conosciuti esponenti dell’imprenditoria locale, che hanno agito senza indugi con l’assenso politico e tecnico di chi quel progetto lo ha più volte avallato ma soprattutto – ed è ciò che io guardo con maggiore incredulità – senza trovare lungo il loro percorso neppure lo straccio di un commento critico da parte del consiglio scientifico del CISA che, è bene ricordare, era stato fondato nel 1958 con l’intento di dare spazio e voce alla cultura palladiana per difenderla dall’incuria e soprattutto dalle aggressioni della folle corsa all’oro del boom economico ed edilizio di quei meravigliosi anni ‘60.
E allora, alla luce di tutto questo, mi chiedo, chi ci aiuta a quantificare i danni di una cultura totalmente asservita ai poteri economici prevalenti, azzittita da un po’ di soldi offerti per divulgare un sapere inutile, perché totalmente autoreferenziale? A porre rimedio ai danni causati da amministratori pubblici e dai loro tecnici lasciati colpevolmente soli a decidere sul futuro delle nostre città e dei nostri territori, pericolosamente subordinati a quei poteri mossi dall’ossessiva ragione del valorizzare i propri beni a danno di quello che appartiene invece a tutti, alla comunità, ma che ancora troppo pochi si fanno carico di difendere?
Mi dico e vi dico: cominciamo ad indignarci, cominciamo a far sentire in modo corale che ci siamo e che non lasceremo che passi in fretta, come nei temporali estivi, il frastuono delle notizie più eclatanti. Riprendiamoci le nostre città, difendiamole dai nuovi vandali sempre pronti a cambiare d’abito per dissimulare la loro presenza nell’indifferenza complice di una cultura senza etica e senza dignità. Imponiamoci di agire per non lasciare intentato nulla come la nostra coscienza di studiosi e di trasmettitori di sapere, di cittadini impegnati e di genitori davvero preoccupati per l’arido futuro che spetta ai nostri figli. Una coscienza che deve essere collettiva e che ci chiede di smettere di nasconderci dietro i silenzi e le complici attese.
postilla
Questo intervento segnala qualcosa che non è «un episodio di contorno», come afferma l’autrice. Esso segnala un problema che è rilevantissimo – almeno per chi ritiene che la questione del “potere” sia centrale. Sempre più, nella nostra società, il potere è esercitato dai gestori dell’economia: di un’economia capitalistica giunta alla sua fase più oppressiva e devastatrice: quella del “finanzcapitalismo” come lo ha analizzato e definito Luciano Gallino. Per esercitare, consolidare ed estendere il suo potere quella economia ha colonizzato la politica, come le recenti vicende hanno svelato a chi ancora non lo avesse compreso. Ma per impadronirsi dei partiti e delle istituzioni non bastava la forza del danaro, occorreva anche conquistare, il consenso dei più. Come è noto il primo strumento per ottenerlo è guadagnare il placet del mondo del sapere e spegnere lo spirito critico là dove esso dovrebbe soprattutto manifestarsi. E’ un mondo del quale si può ottenere il consenso, o la neutralità, adoperando strumenti più soffici di quelli della corruzione diretta, che esulano in larga misura dalle competenze della magistratura. E’ agli intellettuali che spetterebbe il compito di vigilare e denunciare, ma ormai, almeno in Italia, succede di rado.