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C'ERA un unico modo non retorico e dunque non inutile di celebrare l'8 settembre, sessant'anni dopo: leggere quella data non come la morte della patria, ma come l'inizio della Resistenza, e collegare la Resistenza al suo esito politico-istituzionale più alto, la Costituzione Repubblicana del 1948. Lo ha fatto ieri Carlo Azeglio Ciampi e l'operazione è importante sotto l'aspetto morale, politico e culturale. Vediamo perché.
Sostengo da tempo che nel nostro Paese è in atto un vero e proprio cambio di egemonia culturale, senza il quale non si potrebbe spiegare l'incarnazione politica della nuova destra italiana, la sua durata e il suo insediamento, il suo impeto "rivoluzionario", l'istinto di modernizzazione anti-istituzionale che la domina, l'estremismo populista della sua classe dirigente.
Anzi, il trapasso di egemonia culturale è esattamente l'involucro che avviluppa questa politica, tiene insieme il suo procedere a strappi, fa da sfondo, orizzonte e legittimazione. Perché ciò che chiamiamo spirito dei tempi (e la nuova destra lo rappresenta esattamente e lo traduce politicamente) in Italia è esattamente questo: un trasloco di identità condivisa, un cambio culturale di stagione, una destrutturazione del sistema di valori civici su cui si è retta la nostra democrazia per quasi sessant'anni. Insomma, tutto ciò che forma lo spirito repubblicano, la coscienza statuale di una nazione.
Apparentemente, l'operazione culturale e l'operazione politica sono disgiunte e hanno protagonisti e finalità distinte. In realtà la prima funziona da battistrada e da garante della seconda. Né il carattere di rifondazione costituzionale permanente della Casa delle Libertà, né la frettolosa e silenziosa trasformazione degli ex missini di An in forza di governo, né la spinta congiunta e anti-istituzionale di tutto il Polo avrebbero potuto imporsi compiutamente senza una seminazione culturale preventiva e appropriata: che nasce certo altrove, nella piena autonomia della ricerca storica e giornalistica, ma che legittima come una cornice questo quadro italiano di oggi.
Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito ad un attacco diretto a tre punti fermi della cultura civile repubblicana: l'antifascismo, l'azionismo, il Risorgimento. Il risultato è presto detto: la Resistenza - punto d'incontro delle tre culture, soprattutto nell'interpretazione gobettiana dell'azionismo piemontese - è stata svalutata a momento ideologico e strumento politico di una parte (i comunisti).
Con l'effetto culturale e politico di togliere alla Repubblica e alla sua Costituzione ogni fondamento autonomo e nazionale di riconquista della democrazia, trasformandole in costruzioni istituzionali fredde e astratte, senz'anima, quasi octroyé dagli Alleati.
Naturalmente non sottovaluto l'uso politico, di parte, che il Pci ha fatto per anni dell'antifascismo, con il risultato di ritardare e silenziare la compiuta presa di coscienza dei crimini del comunismo: non dello stalinismo, ma del comunismo. Ma resto convinto, con Bobbio, che il rifiuto dell'antifascismo in nome dell'anticomunismo ha finito spesso per condurre a un'altra forma di equidistanza abominevole: tra fascismo e antifascismo. Voglio essere più chiaro.
Un'equiparazione storica tra fascismo e comunismo è legittima. Purché non serva a cancellare lo specifico italiano, diventando una giustificazione per la nostra storia, dimenticando che qui - in Italia - la dittatura fascista è durata più di vent'anni, e che il 25 aprile non è una data scelta a caso che segna sul calendario la fine generica delle tirannie, ma al contrario è un giorno che testimonia concretamente un accadimento storico italiano, e cioè la liberazione del nostro Paese dalla dittatura di Mussolini.
Un Paese che, in nome dell'ideologia camuffa il significato della sua storia, non ha coscienza di sé. Eppure in questi anni abbiamo assistito al tentativo di ridurre il fascismo ad una sorta di debolezza nazionale, di cedimento italico, di vizio collettivo. La "zona grigia" del consenso al regime è stata esaltata come vera interprete del sentimento politico nazionale, come incarnazione del carattere collettivo, come conferma di una dittatura "che non era poi tanto male" e che comunque era patrimonio - magari inconfessabile - di tutti, salvo pochi fanatici alla cui scelta si nega ogni valore morale, ogni capacità di testimonianza valida anche per oggi.
Ancora domenica, come ha ricordato ieri Mario Pirani, il Corriere della Sera recuperava le ragioni degli attendisti, coloro che non si schierarono dopo l'8 settembre: soprattutto perché, spiega Sergio Romano, non accettavano la generale condanna che veniva dai partiti antifascisti sull'intero corso del regime, dal 1922 al 1943, disposti com'erano a riconoscere a Mussolini responsabilità soltanto negli ultimi anni, con la guerra e l'alleanza con Hitler.
Eppure, verrebbe da ricordare, l'assassinio di Matteotti è del 1924: non bastava, per definire il regime? Tra il '25 e il '28 Mussolini instaura tecnicamente la dittatura, sopprimendo la libertà di stampa e sciogliendo i partiti. Poi le leggi razziali. Cos'è successo perché di fronte a tutto ciò il conformismo e le paure degli attendisti vengano presentati, oggi, come "ragioni"? Quali "ragioni" aveva chi accettava la tragedia della democrazia come normale? E perché equiparare sempre tutto, le motivazioni di chi ha sostenuto la dittatura, quelle di chi se n'è lavato le mani, attendendo, e quelle infine di chi l'ha combattuta?
Sessant'anni dopo, c'è un'unica risposta, purtroppo ideologica. L'azzeramento di ogni moralità repubblicana, indispensabile per la destrutturazione di princìpi e istituzioni, passa attraverso la rappresentazione di un'Italia al peggio, in cui tutti sono uguali nei vizi e le virtù civiche non contano perché lo Stato è un estraneo.
Un Paese dove risuona l'elogio del malandrino, dove il rovesciamento della tavola dei valori è in pieno corso, dove l'estetismo e la goliardia si coniugano nello scherno dell'avversario, nella derisione dei suoi ideali, nello sberleffo per i valori civili considerati come inutili: dunque vecchi, superati, sopravvissuti.
Solo in questo quadro culturale si può davvero spiegare il sentimento extra-istituzionale della nostra destra, il suo modernissimo e impudico essere "aliena" allo Stato e alla sua costruzione bilanciata di poteri, il suo carattere rivoluzionario permanente. Solo dentro questa cornice che da anni filtra legittimazioni e delegittimazioni ideologiche si giustifica il prossimo obiettivo della destra: la riscrittura della Costituzione, lo spostamento dei poteri, la fondazione istituzionale di una Terza Repubblica costruita attorno alla leadership del Capo.
Un'operazione possibile solo dopo che sono stati recisi tutti i fili che legano la Costituzione alla fondazione morale della nostra Repubblica, e cioè alla Resistenza, unica fonte di legittimità capace di dare a questo Stato una tradizione viva, autonoma, riconoscibile.
Per questo il discorso di Ciampi è importante. Perché è in assoluta contro-tendenza. Parte dal rifiuto della tesi-madre di tutta l'operazione culturale di cui abbiamo parlato, la tesi che vuole la patria morta l'8 settembre, e al contrario spiega che in quella data "gli uomini e le donne che decisero di reagire salvarono l'onore della patria". Recupera il valore della guerra di liberazione, contro tante letture riduttive e di comodo, sottolinea il sostegno e la condivisione della popolazione, e vede in quella passione civile il "cemento morale" del Paese.
Ma soprattutto, il Presidente pone questo momento di riscatto all'inizio del processo costituente della nostra democrazia statuale, fino alla nascita della Repubblica e al varo della Costituzione. Una Costituzione che Ciampi difende come "valida, viva e vitale" proprio perché ha un'anima: "Lo spirito risorgimentale passato attraverso il dramma della dittatura e la catarsi del 1943-45".
È una rilettura radicale, integrale, della nostra storia, dopo le forzature di comodo. Così, la Repubblica e la Costituzione ritrovano le loro radici legittime, che erano state troppo spesso amputate negli ultimi anni. Diventerà meno facile manipolarle come fiori secchi. Come diventerà meno facile spostare i poteri al vertice dello Stato in una frettolosa riscrittura costituzionale.
Forse, nei tempi difficili in cui viviamo, si comincia finalmente a capire cosa intendevano i padri costituenti quando volevano un uomo di garanzia al vertice della Repubblica.