MILANO - E’ durato tanto il processo sulla presunta compravendita delle sentenze Imi-Sir e Lodo Mondadori. Sicuramente troppo. Ma i tre anni trascorsi tra la prima udienza e la sentenza sono stati rosicchiati da interi mesi di sospensione imposti da impedimenti degli imputati e nuove leggi varate dal Parlamento. I giudici del tribunale di Milano se ne rammaricano, perché un dibattimento così lungo contrasta con la «ragionevole durata» prevista dalla Costituzione. E però, aggiungono, i tempi morti sono serviti a studiare fin nelle virgole le migliaia di documenti portati da accusa e difesa, «fino all’ultima ora dell’ultimo giorno». Giungendo al risultato che quella compravendita di sentenze non è più presunta, bensì «documentalmente provata». Per i giudici «si può concludere che sia stato un bene» poter usufruire dei rinvii, mentre per gli imputati sembra una sorta di contrappasso: se pensavano che tirarla per le lunghe li avrebbe aiutati, ora si scoprono incastrati da «prove» che la Procura non aveva visto o ben valutato, e che il tribunale ha avuto tempo e modo di scovare tra montagne di carte.
Arrivando a stabilire che due magistrati romani e un gruppo di «avvocati d’affari» di cui fa parte il deputato di Forza Italia ed ex ministro Cesare Previti sono stati protagonisti della «più grande corruzione nella storia dell’Italia repubblicana», simbolo del «degrado della Giustizia (la maiuscola è degli estensori della sentenza, ndr) che da cieca fu trasformata in "giustizia ad uso privato"». Giacché è dimostrato, secondo il tribunale, che un giudice ha venduto le cause Imi-Sir e lodo Mondadori «alla parte Sir di Nino Rovelli e a quella Fininvest di Silvio Berlusconi, dietro pagamento di denaro».
I motivi di una simile certezza sono racchiusi nelle 536 pagine della sentenza. Ma prima di esporre le «prove» raccolte in tre anni, a cominciare dalle bozze preparatorie dei provvedimenti giudiziari sull’Imi-Sir trovate negli studi degli avvocati, i giudici hanno voluto inserire una premessa che suona come uno scatto d’orgoglio in difesa della toga che indossano. «Questo Tribunale - scrivono a pagina 2 - è stato oggetto delle "critiche" più aspre e delle accuse più gravi, dentro e soprattutto fuori dall’aula; fino a quella più infamante per un giudice, di essere non al servizio della legge ma al soldo di una parte politica. Accuse che mai un organo giudicante ha dovuto sopportare "in corso d’opera"». Per tre anni il presidente Paolo Carfì e i giudici Enrico Consolandi e Luisa Balzarotti non hanno replicato a invettive e sospetti. Tacere era un «assoluto dovere», spiegano oggi, perché «per un Magistrato (anche qui la maiuscola è degli autori, ndr) la sede istituzionale ove rispondere a "critiche" e accuse è la motivazione che solo, condivisa o meno che sia, può dar conto dell’onorabilità di un Tribunale della Repubblica». Come dire che la replica a tutte le grida di illegalità e parzialità sta nel frutto del lavoro che è ora a disposizione di chiunque voglia guardarlo e giudicarlo. Con l’aggiunta che il tribunale resta «aperto alle più serie critiche che si vorranno muovere», laddove il «serie» sembra escludere i prevedibili e generici attacchi sul «teorema politico» che già ieri sono cominciati a piovere sulla sentenza. Da alcuni imputati e non solo, per le evidenti ripercussioni di un processo che vede alla sbarra un ex ministro e dal quale l’attuale presidente del Consiglio è uscito prima del dibattimento grazie alla concessione delle «attenuanti» e alla prescrizione.
Nel ripercorrere le vicende della sentenza Imi-Sir che diede ragione a Rovelli nella controversia con lo Stato, il tribunale ritiene di aver accertato che non solo un verdetto fu comprato da Rovelli stesso tramite gli avvocati di cui s’è servito (Previti, Pacifico e Acampora) e venduto dal giudice Metta, ma che pure passaggi intermedi come la consulenza d’ufficio sul valore della Sir sono sospetti di «aggiustamenti». Nuove indagini potranno scaturire da questo e altri particolari, a conferma del motivo per cui la Procura ha tenuto aperto l’ormai famoso fascicolo 9520/95: attendere che dal dibattimento emergessero ulteriori spunti investigativi. E se il dibattimento è durato tre anni, come hanno sottolineato i giudici, le responsabilità vanno cercate altrove.
Anche nella disputa sul lodo Mondadori - dov’è nuovamente coinvolto il giudice Metta, il quale «si apprestava a relazionare quando ancora non aveva finito di depositare nei suoi conti correnti il prezzo della compravendita della causa Imi-Rovelli» - il tribunale ritiene di aver ricostruito «un quadro che definire gravemente indiziante è dire poco». Arrivando alla conclusione che tre miliardi di lire versati nel ’91 su un conto estero di Previti altro non siano che la «"provvista" pagata dalla Fininvest di Silvio Berlusconi per regolare rapporti di natura illecita (corruzione del giudice Metta) strettamente connessi alla causa Mondadori».
Dal conto di Previti sono poi partiti i soldi per i magistrati corrotti, sostiene il tribunale che ha analizzato tutte le tesi difensive dell’ex ministro ritenendole infondate una a una. Attirandosi ulteriori attacchi (in parte già giunti a destinazione) dall’imputato, dai suoi difensori e dai suoi colleghi di partito. Ma all’accusato più noto, replicano i giudici, è mancato l’aiuto più importante: «Forse un contributo di chiarezza sui rapporti anche economici tra l’imputato Previti e il gruppo Fininvest poteva essere dato dal "dominus" del gruppo, Silvio Berlusconi. Ma il presidente del Consiglio, dopo aver concordato con il tribunale, tramite i suoi avocati, la data dell’esame previsto a palazzo Chigi, comunicava il sopravvenire di un impedimento per quella data, e contestualmente manifestava la volontà di avvalersi del diritto di non rispondere».