Molti anni fa - forse venticinque, forse più - quando incominciavo a occuparmi di ambiente, di fronte alla totale sordità delle sinistre per il problema, mi domandavo come non si accorgessero che proprio la rottura degli equilibri naturali, e il rischio che ne discende per la collettività, avrebbero potuto essere branditi di fronte al mondo quale estrema evidenza della essenziale negatività del capitalismo: essendo la stessa macchina dell’accumulazione su cui il capitalismo si regge, e la crescita esponenziale del prodotto che ne è l’indispensabile motore, a contraddire quel “senso del limite” che è la regola di un ambiente sano. Erano anni in cui le sinistre ancora gridavano “morte al capitale!”, e usare questo argomento contro il “sistema” sarebbe stato del tutto omogeneo e funzionale alla loro politica, oltre che alla ragione stessa del loro esistere, che era appunto la fine del capitalismo.
Anni lontani. Oggi “morte al capitale!” nessuno lo grida più, nemmeno tra le fila delle sinistre radicali, antagoniste, o come altro si definiscono, non si dice tra i riformisti di varia aggregazione. Intanto la crisi ecologica planetaria si è drammaticamente aggravata, le Cassandre ambientaliste non sono più sole a prevedere un peggio che ormai è già qui (ma non significa che non peggiorerà ancora), con loro c’è l’intera comunità scientifica internazionale e una parte non trascurabile dell’opinione pubblica. E anche politici di prima grandezza, da Blair a Chirac a Schroeder, e perfino Bush, sembrano prendere atto del problema, benché a preoccuparli soprattutto siano le sue ricadute negative sull’economia. Tutti comunque continuano imperterriti a invocare sviluppo e crescita, come se con la crisi ecologica nulla avessero a che vedere. Le sinistre anche.
Lo hanno detto molto nettamente Eddy Salzano nel suo Eddytoriale 70 e Lodo Meneghetti con “Sinistra immemore”. In realtà Eddyburg, che solo di recente ho avuto la fortuna di incontrare, lo dice sovente e con voci diverse, ma soprattutto lo dice implicitamente, con il suo stesso impianto, e con uno sguardo che dalla specifica materia affrontata (si tratti di urbanistica o di ucina) si allarga e rimanda all’intero del senso politico che tutto condiziona e determina.
Il più grosso guaio del nostro tempo credo stia appunto qui. Nella totale mancanza di idee delle sinistre, non solo italiane, aggrappate a politiche praticamente indistinguibili da quelle delle destre. Stessa cecità di fronte a quella che è la contraddizione più grave del nostro tempo, tra la popolazione umana che continua ad aumentare di numero e a moltiplicare i consumi e un pianeta che crescere non può. Stessa fedeltà a un paradigma ormai disastroso anche sul piano sociale, che si vorrebbe correggere con operazioni di moderato riformismo, contro ogni logica sperando di conciliare solidarietà e competitività, e di imporre equità all’interno di un’economia di rapina. Stessa incapacità (o rifiuto?) di vedere la fine di quel processo di crescita che, nella forma dell’accumulazione capitalistica, fino a qualche decennio fa ha indotto nei paesi industrializzati - sia pure tra contraddizioni e iniquità feroci - condizioni di crescente benessere, e che oggi ormai si regge solo al prezzo di più esoso sfruttamento del lavoro, cancellazione di ogni sicurezza, svuotamento dello stato sociale, crescente distanza tra ricchi e poveri.
E’ vero, certo, come dice Eddy, che solo tentare di immaginare un modello socioeconomico diverso è impresa da far tremare vene e polsi, data soprattutto la pervasività del sistema oggi vincente nel mondo, che raggiunge ogni fibra del corpo sociale, colonizzando cervelli, corrompendo coscienze e comportamenti, deformando desideri e sogni. Ma è anche vero che molti sono i segnali di una crisi diversa e assai più grave delle crisi cicliche del passato. E forse si dovrebbero ascoltare le voci che, soprattutto dal Sud del mondo (vedi ad esempio Waldem Bello), suggeriscono di “usare” proprio la crisi per intravedere un paradigma alternativo. Resta comunque drammaticamente vero che finché la politica di ogni parte deliberatamente ignora le tremende domande che il mondo oggi pone, risposte non se ne troveranno.
Forse tocca alla cultura - alla sinistra della cultura - affrontare quelle tremende domande. E andare alla loro radice. Come suggerisce Lodo quando ricorda le “due storie”, quella naturale e quella sociale, cui appartiene la specie umana. O come fa Piero Bevilacqua col suo appena apparso “Prometeo e l’Aquila – Dialogo sul dono del fuoco e i suoi dilemmi” (Donzelli 2005), che con l’aria di giocare si interroga sulle miracolose imprese della tecnologia, sul progresso con essa identificato, cioè a dire sulla nostra Storia.
Forse proprio da lì si dovrebbe partire, dal paradosso di una specie che ha costruito se stessa in costante opposizione alla natura (cui peraltro continua ad appartenere) impegnandosi a dominarla, sfruttarla, vincerne e stravolgerne leggi e senso, contrapponendole la cultura e di questa affermando l’indiscutibile superiorità. E però sempre avvertendo l’azzardo e forse anche la colpa del limite ostinatamente violato, come i miti sembrano suggerire, che puntualmente puniscono chi osa sfidare i vincoli del proprio essere umano, e scalare il cielo, farsi dio: Prometeo appunto, e Icaro, Orfeo, i giganti… Fino al mito dei miti, quello dell’albero della conoscenza, di cui Adamo ed Eva gustarono il frutto attirandosi la vendetta divina e la cacciata dal Paradiso: il mito che fonda la civiltà giudeo-cristiana, o più ancora la vicenda umana tutta intera. Forse non è così improprio leggere il nostro autodistruttivo presente come l’ultimo approdo di quella lontana maledizione divina…
Chiedo scusa. Mi sono infilata in un discorso più grosso di me. Magari qualcun altro, di me meglio attrezzato, vorrà raccoglierlo?