come ha appena fatto Helsinki, il cui consiglio comunale ha rifiutato di costruire, e pagare, una filiale del museo Guggenheim perché “troppo cara per la città, richiede troppo denaro pubblico, occupa un sito di proprietà pubblica troppo pregiato per regalarlo a dei privati!”
La vicenda è stata ignorata dalla stampa italiana, ma andrebbe studiata attentamente, se non dagli amministratori, impegnati a farsi immortalare mentre inaugurano sedicenti musei, che spesso sono solo involucri vuoti, ancorché firmati da costosi architetti, dai cittadini terrorizzati di perdere le “occasioni uniche” elargite dalle multinazionali dell’arte, tra le quali la fondazione Guggenheim primeggia.
A partire dagli anni ’90, la fondazione ha dato avvio ad un piano di espansione globale delle sue attività e imposto una radicale trasformazione del significato e del ruolo dei grandi musei ridotti ad “attrazioni” per turisti e acceleratori di gentrificazione urbana. Dopo Bilbao, le successive tappe di tale piano avrebbero dovuto essere Abu Dhabi e Helsinki.
Il progetto per Abu Dhabi, la cui inaugurazione era inizialmente prevista per il 2017 (ma i lavori sono fermi e non è chiaro se e quando riprenderanno), ha suscitato critiche di varia natura, e non solo con riferimento alla qualità dell’intervento architettonico, firmato da Frank Gerhy e praticamente una replica di quello costruito a Bilbao. Gli oppositori hanno contestato l’approccio post- coloniale dell’operazione, definita una sorta di scambio “oil for art”, perché la gestione e ogni scelta di rilievo sarebbero rimaste a New York, e hanno denunciato e portato all’attenzione di tutto il mondo le condizioni di sfruttamento e semischiavitù dei lavoratori impiegati nella costruzione. Qualche mese fa GULF Labor, una NGO impegnata nella difesa dei diritti umani, ed un gruppo di artisti hanno proiettato sulla superficie esterne del Guggenheim a New York la scritta “Ultra luxury art, ultra low wages”.
La performance ha avuto grande visibilità e ha molto irritato la direzione della fondazione, ma non incide sull’accordo sottoscritto dall’emirato.
A Helsinki, invece, la mobilitazione dei cittadini ha obbligato le autorità locali a fermare il progetto la cui genesi era iniziata nel 2011, quando grazie a un’intensa attività di lobbying la fondazione aveva ricevuto l’incarico, nonché due 2 milioni e mezzo di dollari, per predisporre un piano di fattibilità per un Guggenheim Helsinki, dopo di che aveva suggerito di collocare il nuovo museo sulla parte più pregiata del waterfront, di proprietà della città, e di indire un concorso internazionale di architettura.
Già allora molti cittadini protestarono sia per i costi, 144 milioni, che per i probabili effetti negativi che il Guggenheim avrebbe avuto su altre strutture locali - musei e gallerie - e il consiglio comunale bocciò la proposta. I settori favorevoli però, soprattutto commercianti, albergatori e operatori turistici, hanno formato un gruppo di sostegno alla fondazione e concordato con questa una modesta riduzione dei costi a carico della città, cioè uno sconto sull’affitto del nome il cui prezzo, dai 30 milioni (uno all’anno) inizialmente richiesti, sarebbe stato ridotto a 20 milioni e una possibile partecipazione finanziaria anche da parte dello stato.
La fondazione, quindi, ha elaborato una nuova proposta e indetto un concorso di progettazione che si è concluso nel 2015.
Ma l’attenzione dell’opinione pubblica non ha mai smesso di seguire la vicenda e di evidenziarne gli aspetti negativi, dall’intenzione di sfruttare i cittadini per costruire un museo finalizzato al profitto privato al tentativo di imporre un modello che considera il museo come un marchio da cedere in franchise, invece che come strumento per promuovere il pensiero critico, e propaganda la vendita sui mercati locali di una merce globale, cioè l’arte contemporanea, con tecniche che essenzialmente sono una versione neoliberale del colonialismo culturale. Questa opera di svelamento è stata resa possibile anche perché gli intellettuali non sono stati in silenzio, e molti architetti e critici d’arte si sono impegnati per costruire alternative alla “McDonald dell’arte”. I risultati del loro lavoro sono ora raccolti nel volume The Helsinki effect. Public alternatives to the Guggenheim model of culture driven development.
Nel settembre 2016, la questione è arrivata in parlamento. Il ministro degli affari economici Olli Rehn (quello che non era mai contento dei conti pubblici italiani) si è dichiarato favorevole a stanziare 40 milioni, sostenendo che ne sarebbero derivati benefici all’economia e al turismo, ma il partito “populista” ha messo il veto sull’uso di soldi statali, con il risultato che il conto da pagare sarebbe nuovamente ricaduto tutto sulla città che ha, quindi, dovuto nuovamente votare sulla questione.
In una votazione ristretta la giunta comunale si è espressa a favore, ma i consiglieri sono stati sommersi da una petizione popolare inviata online che intima loro: City of Helsinki Councillors! Vote NO to the Guggenheim proposal!
Il testo con il quale i cittadini sono state sollecitati a sottoscrivere l’appello è molto semplice:
«Malgrado il consiglio comunale abbia già votato NO nel maggio 2012, è stato bandito un concorso di architettura. E’ questo un processo democratico? Un tentativo di far pagare allo stato finlandese il conto per i loro progetti è fallito. Ora, poche settimane dopo riprovano a far pagare con soldi pubblici i loro affari molto privati. E tutto questo in tempi di austerità e tagli!» e il messaggio si basa soprattutto sulle cifre che quantificano l’entità dei costi per i cittadini che si traducono in profitti per la corporation:
- 98 milioni di euro per l'edificio e la sistemazione del sito, in contanti dalla città,
- 35 milioni in prestiti garantiti dalla città,
- 1,3 milione di euro ogni anno dal ministero dell’educazione e della cultura, o in caso di non pagamento da parte del ministero, dalla città
- 0,9 milioni annuali per la manutenzione a carico della città,
- da 3 a 6,5 milioni di deficit ogni anno, perché la città coprirà tutti i rischi derivanti da previsioni finanziarie (introiti sovrastimati e costi sottostimati) totalmente non realistiche.
Per non parlare di una mai vista esenzione da IVA, mentre tutti gli altri musei privati pagano le tasse, per non parlare del terreno ceduto gratuitamente, per non parlare di 1 milione di euro all’anno solo per avere il brand Guggenheim.
In conclusione: oltre 100 milioni di euro per un museo privato che non corre alcun rischio finanziario e la cui gestione è in mano a una corporation straniera.
«Chi pagherà per tutto questo? TU. La proposta dice chiaramente che tutti i rischi saranno della città di Helsinki, dei contribuenti, dei cittadini, cioè NOI. Firma, dici ai nostri consiglieri di votare NO a questo progetto rischioso, costoso e antidemocratico. Se solo una frazione di tutto questo denaro andasse a iniziative culturali e ai musei locali, questo arricchirebbe la nostra città!»
I cittadini hanno firmato in massa e il consiglio comunale non ha potuto far altro che votare NO.