Alla quinta richiesta di rinvio dell’imputato-capo del governo, il tribunale si chiude in camera di consiglio ed esce con una decisione un po’ a sorpresa, ma non troppo: il processo al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuerà a parte, per gli altri otto imputati - da Cesare Previti in giù - si andrà avanti senza dover fare i conti con gli impegni del premier. E questo perché, reclamano i giudici di Milano, un procedimento penale non può annaspare «in una situazione di continua incertezza». Ennesima dimostrazione di uso politico della giustizia, ha subito tuonato qualche «falco» da destra. Ma si può sostenere anche il contrario: secondo il tribunale di Milano l’amministrazione della giustizia non dev’essere condizionata dai tempi e dalle esigenze della politica.
Che la decisione del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai giudici per fare le sue «dichiarazioni spontanee» avesse dei risvolti politici oltre che processuali è opinione di tutti gli osservatori. Così, l’ordinanza letta ieri mattina dal presidente del collegio Luisa Ponti viene anche letta come un sussulto di autonomia e indipendenza della magistratura: un processo che va avanti da centosei udienze non si può impantanare perché l’imputato più eccellente e più impegnato ha improvvisamente deciso di occuparsene personalmente dopo essersene disinteressato per tre anni, come lui stesso ha ammesso.
Berlusconi potrà proseguire a difendersi coi suoi tempi, ma separatamente. Per gli altri si procede secondo il calendario stabilito. Una sorta di Lodo Maccanico deciso in tribunale con l’esclusione dei coimputati dal «congelamento» del processo per il premier, anche se non è proprio la stessa «soluzione politica» che porta il nome dell’ex ministro. Perché, per dirne una, il procedimento contro Berlusconi non è sospeso ma andrà avanti, seppure compatibilmente coi suoi «impedimenti».
Presa questa decisione, nel pomeriggio i giudici pronunciano una nuova ordinanza riguardante Previti e le altre persone accusate di corruzione giudiziaria e reati minori: il dibattimento è chiuso, le nuove prove testimoniali invocate dalle difese non servono. Alla prossima udienza, già fissata per venerdì 23 maggio, il pubblico ministero Ilda Boccassini potrà cominciare la sua requisitoria, con le prevedibili richieste di condanna per gli imputati.
L’esperienza di tre anni e più insegna che nei processi chiamati «toghe sporche» nulla si può dare per certo finché non è avvenuto, ma il calendario è questo. E anche se non farà richieste specifiche sull’imputato-premier, il pm trarrà le sue conclusioni su una vicenda dove ci sono passaggi di denaro e presunte corruzioni commesse da Previti e altri nei confronti di alcuni ex magistrati per conto di Silvio Berlusconi, all’epoca dei fatti imprenditore amico del capo del governo e oggi lui stesso capo del governo. Con l’inevitabile conseguenza di far rientrare dalla finestra dell’aula di giustizia quella politica che i giudici, con la scelta del mattino, avevano tentato di far uscire dalla porta.
Le alchimie tecnico-giuridiche innescate dalle decisioni di ieri offrono ancora altri sbocchi, e aprono la strada a ulteriori incertezze sull’esito di questa partita politico-giudiziaria. In teoria i giudici che hanno appena stralciato la posizione di Berlusconi potrebbero addirittura riunirla nuovamente a quella degli altri imputati; se infatti il premier facesse le sue dichiarazioni di qui a pochi giorni, esaurendo la fase del dibattimento anche nel processo-bis, il tribunale avrebbe la possibilità di tornare a un unico procedimento. Viceversa, se il presidente del Consiglio ritarderà ancora, o i giudici dovessero successivamente accettare l’esibizione di nuove prove, allora i due processi dovrebbero proseguire autonomamente. Con l’insidia finale paventata dai difensori degli altri imputati: qualora nel processo principale si dovesse arrivare alla sentenza, quegli stessi giudici non potrebbero più pronunciare il verdetto nei confronti di Berlusconi, poiché avrebbero già espresso un parere sugli stessi fatti.
La matassa, insomma, è tutt’altro che sbrogliata. E il ping-pong tra giustizia e politica non sembra finito. Nonostante il tentativo di un tribunale che proclama di voler «assolvere al dovere di garantire l’ordinato svolgimento del processo» dopo essere passato indenne, in oltre tre anni, dagli «impedimenti» degli altri onorevoli coinvolti (imputati o avvocati che siano), da ricusazioni e ricorsi alle Alte Corti, dalle nuove norme sulle rogatorie, dal tentativo di sottrarre un giudice al collegio e dal «legittimo sospetto» di parzialità introdotto con la legge Cirami.