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Franco Cordero
Dai tribunali a Palazzo Chigi
13 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Dai tribunali a Palazzo Chigi i due volti del Signor B. Franco Cordero au Repubblica del 10 maggio 2003 "Come umorista involontario ogni tanto è irresistibile, come quando inalbera l’insegna ‘libertà e decenza’ - Sotto maschere allegre, da istrione, si nasconde un boss duro. E lo ha dimostrato con i suoi ultimi gesti".

Molti se l’aspettavano, che l’uomo dai mille affari, signore delle televisioni commerciali, incongruo capo del governo, venisse ai ferri corti con la fisiologia costituzionale: non sa cosa sia; ha troppe mani, cervello selvatico, viscere d’autocrate e una storia che parla. Ricapitoliamo i dati visibili: era un impresario edile piduista, inginocchiatosi davanti al Venerabile Licio Gelli; salta nel business televisivo grazie alle concessioni sull’etere benevolmente octroyées da Bettino Craxi, del quale diventa un enorme parassita, bravissimo nel moltiplicare i soldi; dagli schermi disintegra le teste abbassando l’età mentale media a 11 anni; persi i protettori, converte l’azienda in partito, cava un elettorato dalle masse contemplanti, arruola la schiuma; vince, governa sei mesi, cade; sopravvive benissimo abbindolando un avversario mandatogli dal Cielo. Da 3 anni è padrone d’Italia ma trascina vecchie pendenze, sotto accuse molto gravi: siccome teme la decisione, scatena pandemoni criminaloidi intesi al dissesto del sistema legale; nella filosofia d’Arcore le norme valgono o no secondo le persone, sicché traffica impunito chi stia dalla parte dominante. Al governo accumula performances negative lasciando allibiti quelli che, senza illusioni sulle qualità morali, gli accreditavano abilità pragmatiche.

Dell’uomo sappiamo tutto. Figura, stile, maniere, loquela, conclamano un’incoercibile volgarità. Ha due visi: bagalùn d’l lüster, barzellettiere logorroico, istrione (quel contratto elettorale firmato dallo schermo); ma che boss duro sia sotto maschere allegre, lo dicono i gesti. L’enciclica televisiva mattutina 29 gennaio con cui infamava le Sezioni unite, colpevoli d’avergli negato la rimessione, impallidisce davanti alla lettera 30 aprile, dove l’iperbole assume cariche virulente da guerra civile messicana. Il Tribunale milanese condanna lo stretto suo sodale a 11 anni, come intermediario delle baratterie romane, una delle quali vale l’impero editoriale mondadoriano: e lui, mandante (era uscito ignobilmente dal processo, approfittando d’una svista nell’art. 321 c.p.), ulula a tre gole: «sinistra forcaiola», «barbarie giustizialista», «logica golpista»; qualifica «ipocriti» i consigli d’«abbassare i toni» (vengono dal Quirinale); nient’affatto, bisogna «alzarli» a tutela del popolo sovrano, due volte derubato; risuscitando l’immunità parlamentare, vuol riconvertire le Camere in luogo d’asilo. Immune dallo scrupolo estetico-morale lo è già. Come umorista involontario ogni tanto riesce irresistibile. Ad esempio, inalbera l’insegna «libertà e decenza»: i tedeschi lo chiamano Galgenhumor; "Galgen" significa forca. Ovvie proteste dal Csm, verosimilmente condivise al Quirinale, e lui ribatte l’invettiva: erano riflessioni su una decade politica italiana; qualche norma vieta le analisi storiche? «Criminalità giudiziaria», sibila venerdì mattina 2 maggio, uscendo dal consiglio dei ministri. Ai vertici dello Stato non erano mai corse maledizioni simili, nemmeno nel gennaio 1925: parla come un capo-gangster abituato a comprarsi le sentenze o estorcerle; fallito il colpo, sfrena i molossi sperando d’avere avversari equivoci, fragili, codardi.

Non sono i soprassalti d’un sensitivo: ha consiglieri anche spirituali, ghost-writers, archivisti, sondatori, astrologhi, oniromanti, pensatori; suppongo calcolata ogni mossa. L’urlo epistolare ricorda Polifemo ubriaco, è vero, ma vi era costretto: tacendo sulla condanna milanese, come qualunque cittadino rispettoso delle regole, perde quota nell’opinione canagliesca (componente sine qua non del fenomeno B., in forma cruda o santimoniosa); non può sconfessare P., suo agente, e meno che mai gli convengono pose contrite. Forse la politica non era il suo mestiere. Vedeva chiaro quel fedelissimo alter ego contrario all’avventura. Dal notaio romano Cola di Rienzo al maestro elementare romagnolo Benito Mussolini, è vecchia storia che i predatori della psiche collettiva abbiano carriere rischiose: giocano sul carisma; e i carismi subiscono improvvisi squagliamenti. Il suo era legato alla fama d’imprenditore infallibile, creativo, insonne: un self-made man che suscita aziende, soverchia i concorrenti, sprigiona talenti; e se risultasse che il talento era baratteria? Poco male, purché sgomini Dike, dea minore la cui spada ogni tanto manca i bersagli: le voci morali risuonano fioche dopo vent’anni d’uno stregonesco diluvio mediatico; e se le piccole frodi sono perseguibili solo a querela, l’enorme incute rispetto. Perciò emette fuoco e fumo: padrone delle Camere, governa a imboscate e razzie, nello stile dell’oppositore ribaldo; e chiama «il popolo» alla crociata (lo notava Ezio Mauro qui, 1° maggio). Le sue bestie nere sono Stato, legalità, valori morali, decoro. Naturale: è come se Capitan Kidd diventasse ministro con pieni poteri sul commercio marittimo; vi stupite degli effetti dissonanti?

Che il berlusconismo sia religione (d’un gusto infimo, quindi rigogliosa), lo dicono sante icone: vuol anche essere taumaturgo; diventando presidente d’una sua repubblica, magari restaura la benedizione degli scrofolosi («le Roi te touche, Dieu te guérisse»). Sinora il culto gli portava lauti profitti. Ma i fedeli esigono molto dal nume, pronti a ripudiarlo se li delude: mormoravano vedendo come l’unico ad arricchirsi sia lui, mentre l’Italia va in bolletta e le promesse restano sulla carta del contratto elettorale; l’aveva firmato a inchiostro simpatico. Col fiato sospeso seguivano l’ordalia milanese, aspettando vittorie, meglio se inique. Al primo assalto, invece, stramazza dopo soperchierie d’ogni colore, dalle incursioni ministeriali alle leggi truccate, senza contare un passo falso attribuibile alla logorrea: vizio pericoloso; pagherà cara la sbalorditiva confessione d’avere speso 500 miliardi negli avvocati (F. Verderami, «Corriere della Sera», 30 aprile). Il disincanto è micidiale, signor B. Non teme che i disillusi Le diano del "pirla"? Ogni spettatore sveglio La confronta alle persone contro cui inveisce: non hanno reti televisive né giornali né schiavi, liberti, sicari; non militano in partiti, sette, logge; vivono dello stipendio acquisito con un concorso (quel concorso schernito dal partito soi-disant parlamentare, la cui idea del Parlamento tradisce compiacimenti malavitosi); lavorano impassibili sotto continue provocazioni, nell’aula e fuori; sventano furiosi assalti opponendo argomenti agl’imbrogli; l’essai de patience dura 3 anni; e alla fine decidono, perché esiste una legge. Persino l’indurito sente qualche brivido. Ecco cosa significa "moralità".

L’anno scorso, quando gli strapagati difensori discutevano sul «legittimo sospetto» davanti alle Sezioni unite, rievocavo un episodio dalla storia criminale francese anni Trenta (qui, 28 maggio 2002): era enchanteur anche Serge Alexandre Stavisky, alias Sacha, immigrato russo, artista d’affari osés, con sponde nel mondo politico-giudiziario (sullo schermo lo interpretava Jean-Paul Belmondo e c’era anche il vecchio Charles Boyer); ma è vulnerabile nel processo che gli striscia dietro; schiva il dibattimento attraverso 19 rinvii, guadagnando 7 anni grassi, finché a Bayonne incappa nella disavventura finale; collocava cedole false. Dicono che s’ammazzi al momento dell’arresto. Pochi lo credono. Sacha era un povero diavolo rispetto al Sire d’Arcore, editore dominante, monopolista degli schermi, uomo politico più ricco del mondo, presidente del consiglio, ecc.: nel suo piccolo aveva talento però; e qualche pulsione mortuaria ogni tanto trapela dalle gesta berlusconiane. Nella favola italiana il Joker va sul velluto: incassato un colpo, raddoppia la posta; comunque finisca, uscirà ancora più ricco. Vero. Tuttavia, al suo posto mi guarderei dalla pleonexia. È parola greca, signor B.: l’eccesso arrogante, malvisto dagli dèi; a gioco lungo, talvolta lunghissimo, lo puniscono. Il suo futuro politico dipende dagli oppositori. Supponiamoli seri, e serietà significa precedenti limpidi, disegno politico condivisibile, ugole sobrie, teste che connettano: allora soccombe; ma povera Italia se gli regalano una seconda Bicamerale.

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