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MILANO - Severo, preciso, silenzioso. Quarantanove anni di cui gli ultimi diciotto passati in magistratura, Paolo Carfì è una delle toghe più riservate del tribunale di Milano. Nessuno ricorda una sua intervista, nessuno ricorda un suo commento, una qualunque frase che sfuggisse dalla dialettica processuale. A parte una sua passione per Giacomo Leopardi, e in particolare per "A Silvia", non ci sono dettagli sulla sua vita privata.
Carfì non ha mai vestito i panni della pubblica accusa. Sin dal suo ingresso in magistratura, nel 1985, è sempre stato alla "giudicante". Davanti alla sua sezione, la quarta, negli anni si sono presentati imputati di ogni genere, pedofili, spacciatori, ladri e truffatori. Tutti si sono scontrati contro quel muro di silenzio e rigore. Una rigidità che divenne celebre una prima volta già ai tempi dei processi di Tangentopoli quando si rifiutò di interrogare Craxi ad Hammamet perché i difensori non avevano presentato alcun certificato che ne provasse l’effettiva intrasportabilità. Carfì andò contro anche al pool di Mani Pulite: nel 1996 negò il patteggiamento a Dell’Utri per i fondi neri Publitalia. «La pena di 14 mesi patteggiata con il pm - scrisse - appare a dir poco inadeguata per difetto».
Nel 1993 il "Carfì style" entrò nelle leggende del palazzo di giustizia: denunciò una sua segretaria che, dopo aver dichiarato di non poter fare più straordinari, se ne andò a casa costringendolo a sospendere l´udienza alle due del pomeriggio.
(ma. me.)
A Silvia