Si pensi, ad esempio, alla situazione dell’archeologia preventiva, abbandonata da anni, fra ritardi e inerzie della dirigenza Mibac, a provvedimenti estemporanei quanto a impianto normativo e per di più ambigui e inadeguati nei contenuti, tanto da renderci, in questo settore, il paese europeo forse più arretrato, in un ambito in cui la ricchezza e la varietà del nostro patrimonio non hanno confronti a livello mondiale. Oppure al deficit, in termini di offerta didattica, informativa e di servizi in genere che caratterizza la grande maggioranza dei nostri musei. O ancora al limbo in cui si trova relegata la pianificazione paesaggistica e in generale le politiche di tutela del paesaggio.
Per questo ritardo il mondo della formazione, l’università in primis, ha colpe non meno gravi, basti pensare alla vicenda dei corsi di Conservazione in beni culturali nel loro complesso, pochissime eccezioni escluse, ormai da più parti definiti una vera e propria “truffa sociale”.
Nonostante questo deficit culturale delle massime istituzioni che si occupano di patrimonio, migliaia di giovani, a prezzo di sforzi e sacrifici personali, sono riusciti in questi anni ad acquisire competenze preziose e a ritagliarsi spazi di lavoro tali da arrivare a svolgere funzioni a tal punto essenziali da risultare insostituibili. In alcuni ambiti, se questi professionisti, improvvisamente e nel loro insieme, cessassero le loro attività, lo Stato non riuscirebbe a garantire un adeguato e capillare esercizio della tutela del patrimonio nazionale. Peccato che in cambio di queste funzioni essenziali, lo stesso Stato – e il Mibact nello specifico – si sia finora limitato a girare la testa di fronte a situazioni al limite dello sfruttamento.
La protesta dell’11 gennaio deve quindi servire sia a costringere Stato, e Mibact in particolare, ad assumersi responsabilità precise nei confronti di questi lavoratori, uscendo dalla logica – fallimentare non solo socialmente – per cui solo chi è all’interno dell’istituzione è garantito e al di fuori di questo recinto può esistere il far west. Tutti coloro che, a diverso titolo e in condizioni professionali molto diverse collaborano alla tutela del nostro patrimonio culturale e a produrre cultura devono godere delle stesse tutele: il progetto di legge sul riconoscimento delle professioni dei beni culturali ieri approvato alla camera è un primo, importante passo.
Ma oltre a questo, se vogliamo uscire dai ritardi che gravano sulla gestione del nostro patrimonio e gli impediscono di assumere quel ruolo di crescita sociale e civile che la nostra costituzione gli assegna, occorre ripensare a meccanismi di coinvolgimento di questi professionisti non più estemporanei e residuali. Si deve cioè creare, coordinare e sostenere uno spazio terzo fra lo Stato – Mibact e quel privato così tanto invocato su più fronti, ma che ha sinora offerto ben misere prove – basti pensare alla trentennale vicenda delle concessioni per i servizi aggiuntivi – sia sul piano culturale che di efficacia operativa.
Magari ripartendo proprio dal bando dei 500, che andrebbe riformulato non solo nelle condizioni offerte, ma anche e soprattutto negli obiettivi. Non è davvero pensabile che, ad esempio, dopo 40 anni di fallimenti, si continuino a proporre, per l’inventariazione e digitalizzazione del nostro patrimonio, modelli come quelli dell’ICCD o ci si riferisca ad esperienze altrettanto deludenti come quelle del portale CulturaItalia. Modelli e standards vanno ripensati, radicalmente: quale migliore occasione di “usare” (non sfruttare) energia e competenze giovani ed entusiaste?
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"