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Edoardo Salzano
20070908 La costa cementa
9 Giugno 2008
Articoli e saggi
"Tassa di lusso" o tributo chiesto a chi gode di un privilegio per rendere più bello il paesaggio della Sardegna?.Dal settimanale Carta, n. 31 dell' 8 settembre 2007

La cosidetta “tassa sul lusso” (ma vedremo che è tutt’altro) mi sembra esemplare per ragioni di politica del territorio, di equità sociale, di sviluppo economico.

Intanto, di che cosa si tratta. È un provvedimento della Regione Autonoma della Sardegna che istituisce tre imposte: la prima è prelevata una tantum sul plusvalore determinatosi nell’atto della compravendita di fabbricati destinati a residenze turistiche (seconde case) nella fascia compresa entro tre chilometri dal mare, e consiste nel prelievo del 20 % della differenza tra il prezzo di vendita dichiarato e quello originario d’acquisto o di costruzione; la seconda è annuale, è applicata agli stessi fabbricati ed è proporzionale alla dimensione delle unità immobiliari (va da un minimo di 900 € per unità fino a 60 mq a un massimo di 3.000 € e oltre per unità oltre i 150 mq); la terza imposta è prelevata una tantum agli aeromobili e alle imbarcazioni da diporto che approdano negli aeroscali e negli approdi dell’Isola nel periodo estivo, ed è anch’essa proporzionale alla dimensione del mezzo.

Le prime due imposte (quelle che riguardano le seconde case non appartenenti a cittadini sardi collocate entro la fascia costiera) sono destinate alla costituzione di un fondo regionale, che sarà impiegato per interventi di manutenzione ambientale, di ricostituzione dei paesaggi degradati e di sviluppo del turismo interno. Il fondo sarà ripartito tra progetti di interesse comunale, provinciale e regionale.

Il provvedimento, sul quale si è aperta una discussione ampia sia nell’Isola che nel Continente, è scaturito da una constatazione molto semplice e, a mio parere, totalmente condivisibile. La Regione ha provvidamente deciso di sottoporre a critica il modello di turismo (e di sviluppo economico) fin qui perseguito, basato sulla privatizzazione delle coste, sul loro sfruttamento edilizio, sull’espansione di un turismo di breve durata, e di promuovere al suo posto un modello (e uno sviluppo) alternativo. Il turismo tradizionale ha provocato, come è noto, il degrado di gran parte delle coste sarde, la distruzione paesaggi millenari di grande bellezza e la loro sostituzione con “villaggi turistici” e distese di seconde case di qualità scadentissima, contribuiendo al formarsi di squilibri territoriale e sociali. È un turismo che consuma la materia prima della quale vive (l’ambiente e il paesaggio della Sardegna, la sua identità) e che produce ricchezza soprattutto all’esterno dell’Isola: là dove hanno il loro domicilio fiscale le società immobiliari che costruiscono, vendono, affittano.

Le parole del presidente Soru che riportiamo nel box [stralci da questo documento] qui accanto illustrano a sufficienza le ragioni della critica e le speranze dell’alternativa. Il progetto delineato da Renato Soru ha tra le sue componenti un turismo caratterizzato da flussi di visitatori che della Sardegna frequentino non solo le coste, ma anche le risorse di cultura e di bellezza dell’interno, che non si presentino solo nel breve periodo delle vacanze estive ma in tutte le stagioni in cui l’Isola è bella e amichevole. Un turismo che trovi le sue attrezzature non nei villaggi turistici recintati e nel pullulare di ville e villette collocate a nastro lungo le coste, ma nei paesi e nei borghi posti al di là della fascia costiera, verso l’interno, i suoi paesaggi, i segni della sua identità. Un turismo che rafforzi perciò i sistemi insediativi esistenti, soggetti a un esodo sempre più pronunciato, e dia nuovo alimento alle economie locali: quelle legate alla produzione agricola e zootecnica, quelle legata all’impiego di tecniche, materiali e tipologie costruttive tradizionali, e quelle infine legate alla comunicazione e diffusione della cultura.

Il Piano paesaggistico regionale della Sardegna, al quale ho avuto l’onore di collaborare come membro del Comitato scientifico che ha dato il suo contributo all’Ufficio del piano, redattore del progetto, costituisce un primo passo: definisce una tutela accurata delle risorse d’interesse nazionale e regionale, disegna i lineamenti di progetti di paesaggio da sviluppare soprattutto da parte degli enti locali. Ma un piano non basta senza risorse.

Salvaguardare i paesaggi rimasti intatti, risanare quelli compromessi e degradati, mantenere il territorio e l’ambiente, richiede progetti e finanziamenti. E richiede progetti e finanziamenti anche lo sforzo di far nascere un turismo alternativo quale quello proposto. Ecco perché le nuove imposte, le quali attingono ai portafogli di chi ha ottenuto dallo sviluppo distorto privilegi negati agli altri, di chi ha contribuito alla distruzione di paesaggi straordinari, di chi vede ancora oggi la sua ricchezza privata accrescersi grazie a scelte pubbliche di politica del territorio e a investimenti di risorse collettive cui non contribuisce in misura significativa.

Le imposte che riguardano le costruzioni nella fascia costiera non colpiscono i profitti d’impresa, né tanto meno salari e stipendi: colpiscono la rendita immobiliare, quella che l’economia classica definisce “la componente parassitaria” del reddito. La ricchezza prodotta e goduta (il reddito) è infatti distinto in tre componenti. Secondo la scuola liberale e liberista, il salario (e lo stipendio, che ne è una forma) compensa il tempo di lavoro impiegato: cioè retribuisce chi spende il proprio sapere e mestiere e la propria attività fisica per produrre. Il profitto è, il compenso per l’attività dell’imprenditore: cioè di chi associa tra loro e organizza i vari fattori della produzione. La rendita è la parte della ricchezza collettiva di cui si appropria chi è pervenuto a possedere un bene che è richiesto da altri ed è disponibile in quantità limitata; è quindi la componente del reddito che premia chi si limita a richiedere una taglia per il fatto che gode della proprietà, ma non contribuisce in alcun modo al processo produttivo.

Nelle economie autenticamente liberali si tende a privilegiare, quale parte della ricchezza da cui prelevare le tasse, la rendita, la “componente parassitaria del reddito”. Il pensiero liberale ha considerato nel trasferimento di risorse dalla rendita alle attività produttive un contributo allo sviluppo di un’economia capitalistica sana. L’economista e politico statunitense Henry George divenne famoso nella seconda metà del XIX secolo per aver proposto un prelievo del 100 % della rendita immobiliare come soluzione per vincere la povertà e dare impulso alla produzione [si veda qui]. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, sostenne pubblicamente, nel 1972, che “in Italia l'area della rendita si [è] estesa in modo patologico” e che, “poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa”. Questo era, secondo il padrone della maggiore azienda capitalistica italiana, “il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire” [si veda qui]

Non chiamiamo dunque “tassa di lusso” il sistema di imposte decise dalla Regione Autonoma Sardegna. Si tratta di tributi finalizzati alla difesa attiva della maggiore risorsa dell’Isola, patrimonio dei sardi e di tutti gli uomini che vogliono e vorranno goderne senza dissiparlo né rinchiuderla negli steccati delle proprietà esclusive; tributi che sottraggono alla “rendita parassitaria” una quota limitata di un plusvalore che è frutto della collettività e del suo secolare investimento nel paesaggio della Sardegna; tributi che incoraggiano uno sviluppo economico meno distorto di quello preconizzato dai difensori dei grandi poteri immobiliari.

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