In calce l'articolo di Arturo Lanzani e le repliche alle sue 9 proposte
E’ certamente positivo che, come Arturo Lanzani ci segnala, negli ultimi mesi molti studiosi abbiano «sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato». C’è indubbiamente da compiacersene soprattutto da parte di chi, almeno dalla seconda metà degli anni 90, e compiutamente nel 2005 con la prima edizione della “scuola di eddyburg” (voglio ricordare tra gli altri Maria Cristina Gibelli, Mauro Baioni, Fabrizio Bottini, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Antonio di Gennaro), evidenziava questo come un tema di rilevanza fondamentale, ma si sentiva allora circondato da un silenzio assordante (Gibelli e Salzano, NO SPRAWL, Alinea, 2006). Sentiva cioè di studiare e di proporre in un contesto culturale (e politico, e amministrativo), nel quale la “diffusione urbana”, o la “città diffusa”, o la “città infinita” sembravano fenomeni da analizzare non per contrastarli, ma per scoprire in essi una nuova occasione di sperimentazione di pratiche “innovative” di disegno urbano: non per contrastare il fenomeno dunque, ma per accompagnarlo, riprogettane le forme, integrarne i contenuti, arricchirne il significato, accrescerne la bellezza - con rotondi alberelli e magari con nuove più massicce costruzioni.
Bisognerebbe domandarsi a che cosa è dovuta la ‘recente’ consapevolezza maturata nel milieu culturale specialistico sulla necessità di intervenire con urgenza per fermare il consumo di suolo agricolo e naturale. Non certo a una sia pur tardiva presa di coscienza da parte della politica e dell’amministrazione. E neppure a un vigoroso allarme sollevato dalla cultura urbanistica ufficiale: quella dell’accademia e delle istituzioni culturali, che ha continuato a preoccuparsi più di moderare, molcire, mitigare, correggere il fenomeno – e insomma di accompagnarlo - che di denunciarlo e di suggerire gli strumenti tecnici per contrastarlo, dopo averne compreso e svelato le radici.
Quali sono le radici del fenomeno, a guardarlo dal campo visuale dell’urbanista? Almeno tre: il ruolo assolutamente dominante della rendita immobiliare (dell’accrescimento del valore della rendita fondiaria a causa delle aspettative di urbanizzazione dei suoli e di nuove forme/aree su cui generarla); l’abbandono delle politiche di edilizia abitativa programmate negli anni 60 e 70; il discredito nel quale è stata gettata quella che è stata definita “urbanistica autoritativa”.
Se si volessero sviluppare le proposte generosamente avanzate da Lanzani occorrerebbe partire da una riflessione su perché e come quelle tre questioni si siano manifestate (e siano anzi diventate devastanti) nel ventennio passato. Certo la riflessione dovrebbe tener conto del quadro più complessivo: che è quello dell’egemonia dell’ideologia neoliberista (a cominciare dalla martellante predica del primato del privato sul pubblico, del mercato sullo stato, dell’economia sulla politica), della sua diffusione nelle pratiche di governo del territorio, e infine, last but not least, della mutazione del sistema economico in quello che è stato definito da Gallino “finanzcapitalismo” (Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011).
Su eddyburg, e nelle diverse edizioni della sua scuola estiva di pianificazione, cerchiamo costantemente di fornire materiali, non troppo specialistici, di conoscenza e riflessione critica su questo più ampio quadro. Siamo infatti convinti che chiudere l’attenzione degli urbanisti nello stretto recinto disciplinare-professionale li possa sospingere a diventare facilitatori di processi che sfuggono alla loro comprensione, anziché interpreti critici delle tendenze in atto e propositori di obiettivi e percorsi alternativi.
In questa sede vogliamo limitarci a porre un interrogativo. Non avrà la cultura urbanistica ufficiale legittimato, consapevolmente o meno, il modello del neoliberismo? A mio parere sì, in particolare con l’appoggio, o addirittura l’invenzione, di pratiche e di parole d’ordine che hanno legittimato le ideologie da cui ha tratto alimento. Accenno ad alcune espressioni che di queste ideologie sono il risultato operativo: l’”urbanistica contrattata” (o concertata) come strumento per sottrarre il rapporto tra il pubblico (l’ente territoriale elettivo) e il privato (immobiliarista e/o proprietario) alla trasparenza e alla subordinazione del secondo al primo; la perequazione e la compensazione come riconoscimento, premio e incentivo alla formazione di plusvalori fondiari; i “programmi speciali” e gli “accordi di programma” in deroga alla pianificazione ordinaria; e infine i “diritti edificatori”, mera invenzione degli urbanisti (PRG di Roma) e causa del riconoscimento pratico dell’impossibilità di ridurre previsioni eccessive di edificabilità dei piani urbanistici. E vorrei aggiungere anche l’errore culturale e pratico commesso con l’introduzione dell’interesse degli investitori come componente legittimamente riconoscibile nella decisione della quantità dell’espansione urbana, fino a farne una componente del fabbisogno edilizio.
Lanzani ha costruito la sua proposta raccogliendo criticamente quelle che ha desunto dal dibattito in corso. (Sarebbe interessante capire perché ha trascurato di rammentare quella elaborata da Luigi Scano, contenuta nella “proposta di legge di eddyburg” e recepita in alcuni dei disegni di legge della XIV legislatura) . Non espongo qui le mie osservazioni su ciascuna delle nove proposte di Lanzani; lo farò su eddyburg.it. Esse comunque non mi sembrano tali da assicurare una ragionevole (cioè drastica quanto è necessario) riduzione del consumo di suolo: sia per alcuni limiti peculiari ai singoli punti, o al modo in cui sono formulati, sia perché non affrontano tutti i versanti del problema, soffermandosi solo su quello urbanistico edilizio.
La mia ferma opinione è che non sia sufficiente combattere l’espansione edilizia, ma occorra al tempo stesso difendere il territorio rurale dall’urbanizzazione non strettamente necessaria. Ciò significa collegare le mille vertenze aperte per combattere il consumo di suolo urbano con quelle, aperte in tutto il mondo, per la difesa delle utilizzazioni agro-silvo-pastorali d’interesse delle popolazioni insediate, per contrastare sia l’irragionevole espansione della “repellente crosta di cemento e asfalto” sia il land grabbing e la sostituzione di colture basate sul valore di scambio sul mercato internazionale anziché sul valore d’uso dell’alimentazione sana e risparmiatrice di energia.
Affrontare congiuntamente i due versanti dell’aggressione all’uso del suolo consentirebbe di rafforzare quello che a me sembra uno degli aspetti decisivi della novità registrata da Lanzani: il fatto che la questione del contrasto al consumo di suolo sia diventata un tema all’ordine del giorno. A mio parere (e dò in tal modo la mia risposta alla domanda che ponevo all’inizio) la novità è emersa per effetto di due tensioni: da un lato, quella positiva espressa dalle migliaia di vertenze che, quasi in ogni regione, sono sorte per rivendicare un uso del territorio alternativo rispetto a quello che ha provocato l’aberrante consumo di suolo che abbiamo conosciuto; dall’altro lato, quella (a mio parere negativa: ma a volte sono un po’ manicheo) esercitata dagli operatori (immobiliaristi e finanzieri, professionisti, amministratori d’ogni ordine e grado) in vario modo legati al mondo del mattone, che avvertono che la bolla si è sgonfiata, che con la prosecuzione del consumo di suolo non si fanno più affari, e che quindi conviene invece spendersi (e guadagnare) recuperando, riqualificando, rigenerando, riprogettando – e mitigando, molcendo, migliorando.
Il Giornale dell’architettura
febbraio 2012
SALVAITALIA
di Arturo Lanzani, geografo e urbanista
Nelle ultimi mesi molti studiosi hanno sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato. La salvaguardia, la cura e la riqualificazione dei grandi spazi aperti è apparsa a molti storici e conservatori come condizione necessaria anche se non sufficiente di tutela del nostro paesaggio storico e precondizione di un modello di sviluppo più attento al ruolo che in esso possono giocare i beni culturali; ma è apparsa anche a molti urbanisti e architetti come punto di partenza di una riqualificazione dei paesaggi contemporanei focalizzata sul progetto di suolo, su un’architettura a volume zero, del riuso e del riciclo. L’arresto del consumo di suolo e della frammentazione degli spazi aperti, che si realizza prevalentemente sulle terre di pianura più fertili, per molti agronomi, ecologi, biologi, geologi, idraulici è una mossa urgente per non penalizzare ulteriormente il settore agricolo, per non incrementare l’effetto serra, per mantenere l’elevato livello di biodiversità e per evitare quella impermeabilizzazione che assieme a una più attenta gestione del bosco di ritorno sulle terre agricole marginali e a un riordino degli insediamenti esistenti è la misura strutturale per ridurre il dissesto idrogeologico ed evitare i ricorrenti disastri ambientali. Parimenti, alcuni economisti hanno sottolineato come la competitività delle nostre urbanizzazioni passa per una loro ricapitalizzazione, per una loro reinfrastrutturazione e per un loro ridisegno qualitativo e non su una crescita estensiva dell’urbanizzato che porta invece a costi di gestione delle reti sempre più elevate e alla realizzazione d’infrastrutture banali. Un punto di vista che s’incontra con chi, nel campo delle politiche dei trasporti, insiste più sulla necessità d’interventi di manutenzione straordinaria, di piccole opere diffuse e d’innovazione di gestione, che non di faraoniche nuove infrastrutture. Infine, alcuni urbanisti e geografi hanno sottolineato come le attuali dinamiche espansive dell’urbanizzazione non siano più legate a una consistente crescita demografica ed economica e a un epocale riassetto della geografia del popolamento e delle imprese, che in passato si sarebbe dovuto orientare ma non certo ostacolare, ma da una spirale dove negli stessi territori abbandono e sottoutilizzo di suoli già urbanizzati si affiancano a nuove urbanizzazioni che consumano suolo. Una spirale alimentata, dal lato dell’offerta, da piani urbanistici che rispondono solo a valutazioni di bilancio e di consenso a brevissimo periodo e, dal lato della domanda, dal riversarsi nell’edilizia di capitali non più reinvestiti in attività industriali competitive, nonché da flussi consistenti di risorse provenienti dall’economia illegale. Una spirale che determina esiti devastanti sulla vivibilità delle nostre urbanizzazioni.
D’altra parte, la drammatica congiuntura economica che sta investendo il nostro paese ha portato in modo diffuso a interrogarsi su come reperire risorse non solo per ridurre i livelli d’indebitamento (senza però penalizzare oltre modo il lavoro e l’investimento), ma anche per promuovere una politica di sviluppo. La lotta alle rendite, e tra queste la vecchia rendita fondiaria, appare allora non solo come una prospettiva di politica economica ampiamente condivisa (almeno in apparenza), ma anche come la possibile congiunzione tra esigenze di risanamento e sviluppo economico del nostro paese e le precedenti riflessioni.
Il decreto «salva Italia» e gli annunciati provvedimenti a favore della crescita da parte del governo Monti non solo non paiono del tutto convincenti rispetto alla difficile inquadratura tra «rigore, equità e sviluppo», ma non sembrano ancora annunciare una nuova stagione d’incontro tra le misure per lo sviluppo e un’attenzione alla qualità dell’ambiente costruito e naturale che allinei le nostre politiche urbanistiche e ambientali a quelle dei paesi europei, facendo propria un’idea di sviluppo che non coincida con la crescita del Pil e preveda infrastrutture effettivamente in grado di riqualificare il nostro territorio. Proviamo allora a delineare una serie di misure che il governo, qualora lo volesse, potrebbe intraprendere per catturare una quota della rendita fondiaria e per «salvare il suolo» sintesi di natura e storia e base materiale del nostro paese.
1. La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali (soprintendenze e autorità di bacino). In primo luogo perché lo spazio aperto va inteso come un bene ambientale e paesistico, la cui tutela è costituzionalmente esercitata da regioni e Stato. In secondo luogo poiché la riorganizzazione urbanistica delle aree produttive, d’infrastrutture e attrezzature (l’unica che può esprimere una domanda che non può trovare risposta nel riuso e riciclo dello spazio già urbanizzato) deve procedere, come in quasi tutta Europa, alla scala delle nuove più estese conurbazioni.
2. Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità.
3. Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate. Essa deve risarcire le popolazioni locali della rinuncia di una risorsa ambientale a scapito della presente e delle future generazioni. Nello stesso tempo deve riequilibrare il costo-opportunità dell’investimento privato immobiliare sui green field rispetto ai brown field, favorendo questi ultimi. L’imposta deve assommare i differenziali medi di valore nell’acquisto delle aree e i costi di demolizione e smaltimento delle macerie.
4. Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato (interventi di risanamento dei centri storici e dei monumenti, realizzazione d’infrastrutture innovative quali teleriscaldamento, reti a bande larghe, corsie protette per il trasporto pubblico, metrotranvie, ecc.), ma anche per la semplice manutenzione straordinaria delle infrastrutture tradizionali (scuole, sedi stradali, reti fognarie, idriche, ferroviarie), nonché per un contributo pubblico alle bonifiche di aree dismesse inquinate da riurbanizzare. Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti: realizzando parchi e reti verdi, garantendo manutenzioni alle aree archeologiche, sostenendo l’agricoltura periurbana, rinaturalizzando bacini fluviali, ecc.
5. Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico. Nei territori periurbani di pianura queste compensazioni dovrebbero riguardare aree attrezzate ex novo con prati e boschi fruibili, agricoltura urbana e greenways; nelle aree di collina e montagna dovrebbero riguardare un’azione straordinaria di cura e manutenzione dei sentieri, dei boschi e dei prati stabili. Tali compensazioni d’altra parte debbono essere la premessa finanziaria di una progettazione integrata di reti verdi e di reti di comunicazioni, secondo standard europei.
6. Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. L’attuale concertazione a scala comunale e «caso per caso» di oneri o opere aggiuntive da realizzare non ha sempre garantito un riparto sufficiente a favore del pubblico, non ha garantito indifferenza (anzi è spesso stato alla radice di fenomeni collusivi e corruttivi) e ha minato la concorrenza. A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.
7. In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento.
8. In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.
9. L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.
Note sulle proposte di Lanzani
di Edardo Salzano
1.
Lanzani: La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali. […]
ES: E’ esattamente quello che prevede il modello di pianificazione italiano fino alle demolizioni apportate prima e dopo le modifiche alla costituzione (a partire dalle leggi derogatorie dei primi anni 80)
2.
Lanzani: Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità
ES: Forse L. propone di sostituire la class action alle Osservazioni ai piani urbanistici che prevedono ecc. ecc.? La “espropriazione verticistica” nasce da lì. Ma invece della class action bisognerebbe prescrivere forme più incisive di partecipazione.
3.
Lanzani: Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate
ES: Preliminarmente, moratoria sull’ “enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti” e cancellazione di tutti quelli che risultano non necessari in base a una rigorosa analisi del fabbisogno. Un’imposta simile incorrerebbe certamente nella censura della Corte costituzionale. La questione dell’appartenenza dell’edificabilità e della tassazione del plusvalore determinato dalle scelte urbanistiche va affrontata in modo complessivo.
4.
Lanzani: Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato […] Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti […]
ES: La questione è quella della formazione dei bilanci comunali, provinciali, regionali, statali.
5.
Lanzani: Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico.[…]
ES: Non conosco la legislazione tedesca in materia. Ma questa “compensazione” che significa? Che se consumo un ettaro con una strada o dei capannoni metto un retino di un ettaro su un’area verde, a ciò destinata dal piano? Oppure che sottraggo un’area alla crosta di cemento e asfalto e la rendo di nuovo permeabile? Per esempio, che il promotore di una qualsiasi operazione prevista dal piano deve cedere al comune un equivalente di terreno che il comune si impegna a destinare a verde pubblico con vincolo permanente?
6.
Lanzani: Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. […] A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.
ES: Vedi seconda parte punto 3. Affrontare la questione in questo modo è infantile.
7.
Lanzani: In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento
ES: Una soluzione simile non sembra affatto in grado di consentire di risolvere il grave problema dell’abitazione in Italia. Si limita a decidere di formare un’ offerta, di dimensioni ignote (e certamente modeste se si vuole interrompere il consumo di suolo), di fronte a una domanda di cui non si sa niente, se non che è legata alle localizzazioni, alle capacità di spesa e a molte altre condizioni che, allo stato delle conoscenze possibili ai livelli locali, non sono manovrabili e neppure conoscibili.
C’è comunque da dubitare che le quantità, disponibilità economiche, caratteristiche sociali della domanda insoddisfatta abbiano una qualche relazione con l’offerta costruita secondo quel modello. Chi si è occupato di edilizia abitative nella logica del “diritto alla casa” negli anni 50, 60, 70 riderebbe di grosso.
8.
Lanzani: In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.
ES: Sono fortemente perplesso. Inammissibile comunque l’esenzione da tasse e tributi. L’avvenuto condono non giustifica il trattamento comunque non differenziato tra chi ha cstruito lì per colpa del comune e chi ha costruito lì abusivamente. Prima di proporre sanatorie bisognerebbe comunque valutare i dati quantitativi e sociali del fenomeno.
9.
Lanzani: L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.
ES: La compensazione tra comuni posti in condizioni finanziarie differenti dalle diverse politiche urbanistiche, economiche e finanziarie non è certo risolvibile con compensazioni sugli oneri di urbanizzazzioni, ma con politiche, piani, programmi e governi d’area vasta.