Il miracolo italiano è un paese di ogm
Negli ultimi decenni Silvio Berlusconi è riuscito a modificare l'Italia e i suoi abitanti. Sarà difficile, ma non impossibile, riparare i guasti arrecati dalle sue leggi. Più arduo sarà affrontare i danni prodotti nella mentalità degli italiani, ai quali l'ex premier e il suo alter ego, Giulio Tremonti, hanno spacciato per anni egoismo sociale con una politica concentrata sugli interessi personali. Una pesante eredità che non ha lasciato indenne nemmeno il centrosinistra
Di fronte a palazzo Chigi, mentre i ministri si riunivano per l'ultimo saluto, ieri c'era solo gente pronta al fischio. A pochi metri di distanza, di fronte alla camera, i fischiatori e i plaudenti erano equalmente ripartiti. La perla della giornata, però, il cavaliere dimissionario non la riservata ne ai fans né ai nemici. Se l'è spesa con i compagni della lunga avventura di governo: «Saremo rimpianti».
Qualcuno è d'accordo con lui, e non sono mica quattro gatti: una metà tonda del paese. L'altra metà la vede in modo opposto: quello che ci lascia è il peggiore tra i governi esistiti, anzi, tra quelli possibili. In un paese sino a poco tempo fa abituato alle sfumature, ai nasi turati e al «meno peggio», una simile lacerazione è di per sé un fatto nuovo. Basta da solo a rivelare quanto a fondo l'industriale prestato alla politica abbia inciso nel costume politico del paese e nella mentalità degli elettori, quelli che lo adorano e quelli che lo detestano.
Onore al merito, o al demerito: Silvio Berlusconi ha cambiato l'Italia più volte, e in molti modi. Lo ha fatto negli anni '80, quando ancora l'idea di lanciarsi in politica lo avrebbe fatto sorridere, costruendo con le sue televisioni un pubblico di spettatori pronti a trasformarsi in elettori letteralmente da un momento all'altro. Lo ha fatto di nuovo nel '94, cavalcando da virtuoso le contraddittorie tendenze della crisi che aveva posto fine alla prima repubblica. E poi ancora, negli anni dell'opposizione, la «traversata del deserto» come lui stesso ama definirla, quando rivelò e allo stesso tempo rese irreversibile l'avvenuto superamento dei gloriosi partiti di massa con il suo partito virtuale, capace di passare come se nulla fosse da poche migliaia di tesserati e centinaia di migliaia di iscritti, grazie alla trovata di una crociera, nel 2000, per poi riprecipitare quanto a iscrizioni, mantenendosi però sempre in testa alle classifiche quanto a voti sonanti.
Ma ancor più che con il video o con il partito azzurro, il cavalier Berlusconi ha cambiato il suo paese, o più precisamente gli abitanti dello stesso, col concreto operare del suo governo, a colpi di leggi e leggine. Sono stati interventi pesanti, dalla riforma della Costituzione, il fiore all'occhiello, a quella della scuola, dall'istituzionalizzazione del precariato alla ristrutturazione dell'etere, per tacere delle innumerevoli leggi ad personam. Tornare indietro sarà meno facile di quanto non sia apparso in campagna elettorale. Non a caso si moltiplicano le voci autorevoli che «consigliano» a Prodi di non buttare il bambino con l'acqua sporca, gli accorati appelli che lo invitano a tenersi stretto quel che di buono c'è nelle riforme della destra.
Ma per quanto difficile, smontare l'edificio costruito dal cavaliere e dei suoi ministri non è impossibile. Molto più arduo rischia di rivelarsi il compito di ovviare ai danni introdotti giorno dopo giorno nella mentalità degli italiani. Col governo, proprio come vent'anni prima con le televisioni, la più ambiziosa e per molti versi riuscita operazione del signore d'Arcore è stata quella di modificare il suo pubblico votante.
In tutti i provvedimenti che per anni l'ex premier ha squadernato in innumerevoli conferenze stampa, nelle riforme più fragorose come nell'ultima leggina, campeggia un profondo e micidiale elemento di coerenza. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, condono dopo condono, Silvio Berlusconi e il suo unico, vero altr ego, Giulio Tremonti, hanno legittimato, esaltato, beatificato i peggiori istinti dei loro governati. Hanno reso l'egoismo sociale motivo di vanto e il concentrarsi esclusivamente sul tornaconto personale prassi consacrata. Hanno introdotto nei fatti una concezione della politica deprivata di ogni elemento tranne il vantaggio a breve e sostituito il resto con una propaganda volutamente rozza.
Il cemento che tiene saldamente unite misure come il ritorno della selezione di classe nella scuola, una divisione del paese misurata sul reddito, la cancellazione dei diritti nel lavoro e i triviali provvedimenti studiati a misura di premier è stato sfacciatamente riassunto dallo stesso Berlusconi: «Pochi saranno tanto coglioni da andare contro i propri interessi». E' da questa eredità, che non lascia affatto indenne neppure il centrosinistra, che sarà davvero difficile liberarsi.
Marco Revelli: «Ecco cosa resta del berlusconismo»
Intervista di Roberta Carlini
Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata Nel profondo metà paese rimane quello dei Caimani. Anche se ora si respira meglio
«Oggi è giusto festeggiare perché il Berlusconi politico se ne va. Ma il problema è capire cosa ci resta come zavorra del paese: non solo e non tanto nella politica, quanto nel carattere nazionale del quale Berlusconi è stato specchio, maschera e grande sdoganatore». Nell'ultimo giorno del governo Berlusconi, parliamo con Marco Revelli, storico e sociologo, di quel resta e di quello che è cambiato nell'Italia del Caimano. In un arco di tempo che Revelli divide in due periodi: quello dello sdoganamento della ricchezza come valore, e quello della paura di perderla.
Quando dici che Berlusconi è un pezzo del carattere della nazione e non solo una parentesi politica, tracci un parallelo con i giudizi storici sul fascismo?
Sì, penso alla definizione di Gobetti sul fascismo come autobiografia e antropologia di una buona metà della nazione, come una delle forme che le tare storiche del carattere degli italiani hanno assunto. Partiamo dal momento dell'ascesa del berlusconismo, il '94; ripensiamo allo choc che tutti abbiamo provato quando questo partito istantaneo, appena quotato alla borsa della politica, si è rivelato subito maggioritario. Lì si vede chiaramente che Berlusconi non ha prodotto una nuova antropologia, l'ha sdoganata. Ha prestato la sua faccia a una parte dell'Italia che si credeva impresentabile e l'ha legittimata.
Non stai parlando di Fini e dell'ex-Msi, credo.
No. Il primo messaggio di Berlusconi fu molto semplice: ricco è bello, la ricchezza è un valore senza se e senza ma. E' la misura del proprio valore. Non c'è da vergognarsene, comunque sia stata guadagnata. Altre erano state le culture politiche della prima repubblica - almeno quelle pubbliche, al di là dei vizi privati. D'un colpo, quest'Italia barbara vede i suoi istinti animali esaltati come pubbliche virtù. Ricordo di aver letto con sorpresa un articolo sul Corriere nel quale Angelo Panebianco diceva che il merito di Berlusconi è nell'aver legittimato il capitalismo in Italia, al contrario della prima repubblica: mi colpì, perché il capitalismo, quello della grande fabbrica e dell'impresa pubblica, la prima repubblica l'aveva costituita. In realtà quel che Berlusconi legittimava era la ricchezza, non il capitalismo. Era uno specchio, lo specchio del grande ricco nel quale anche il piccolo ricco può trovare la giustificazione del proprio privilegio. E chi ricco non è, può aspirarvi, come i tanti che vanno sulle banchine di Porto Cervo per guardare i ricchi passare.
Quanto dura quel sogno?
Finisce quando si infrange sulle mancate promesse del turbo-capitalismo, quando si scopre che l'«arricchitevi» non funziona per tutti. Ma sulla crisi di quel sogno si inserisce il secondo Berlusconi, quello della «mors tua vita mea». Il messaggio cambia, diventa il «si salvi chi può», ossia: i tuoi frammenti di ricchezza li puoi salvare se non badi ai mezzi con cui li difendi.
Questo avviene quando nell'economia arriva la fase recessiva?
Certo, una fase in cui aumenta l'incertezza per tutti, e con essa la paura di una parte d'Italia non più sicura della propria ricchezza, che teme di tornare indietro, di tornare sotto la linea del galleggiamento ma non si rassegna a fare uno sforzo collettivo per uscirne. Anzi, il messaggio che Berlusconi interpreta e lancia allo stesso tempo è: individualmente ciascuno ce la può fare, in una lotta crudele per la sopravvivenza. La popolarità del discorso sulle tasse sta in questa logica di sopravvivenza individuale. Sulla scena politica, il «si salvi chi può» porta a qualsiasi mezzo, anche alla guerra ai propri alleati. Sulla scena sociale, mostra una lotta tra atomi predatori che non tollerano più nessun «noi»: qualsiasi processo collettivo viene vissuto come limite alla libertà personale.
In tutte e due le fasi, pensi che l'operazione di Berlusconi sia stata solo quella di «metterci la faccia»? Ha solo assecondato una tendenza?
Dai luoghi del potere, ne è diventato anche un formidabile acceleratore. Come dicevo prima, ha sdoganato un'Italia che prima non si presentava. Ne è diventato banditore e le ha fatto conquistare pezzi di insediamento sociale che prima non le appartenevano: c'è stata un'Italia povera conquistata da questo discorso.
La conquista, iniziata nel Nord, lì è stata mantenuta, come mostra il voto. Come spieghi l'arroccamento del Nord sul berlusconismo?
Perché lì il processo di individualizzazione è andato più avanti, con le trasformazioni della produzione tipiche della modernità, dove convivono residui del fordismo con capitalismi personali e delocalizzazioni. Dove gli «istinti animali» del capitalismo sono entrati nella realtà delle relazioni interpersonali.
Come agirà su questo scenario il cambiamento politico? In altre parole, con la caduta di Berlusconi entra in crisi anche la metà del paese che in lui si rispecchia?
Ormai il cambiamento è avvenuto, e nel profondo. E' una mutazione antropologica e non politica. Il cambio di gestione rende più respirabile l'aria nello spazio pubblico, ma l'autobiografia prosegue, perché la crisi della dimensione del «noi» non riguarda solo i Caimani, ma anche la buona società del centrosinistra e un pezzo del suo ceto politico che ha la tentazione di usare gli stessi codici, fare appello alle stesse pulsioni. Quel che è successo è il sintomo di una società completamente malata: e l'Italia non è nuova a queste malattie, in passato purtroppo le cure e gli anticorpi li ha trovati solo nelle catastrofi. Se vogliamo pensare e sperare in una via d'uscita meno tragica, a una nuova ricostruzione etica, non resta che un lavoro nei territori con un'alternativa di pratica e stile di vita. Uscire dal Grande fratello, per ritrovare un po' di realtà. E sobrietà.