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Federico Garcìa Lorca
Lorca, LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS
19 Settembre 2004
Poesie
(1898-1936). Non so capire perchè non avevo inserito ancora questo poema del grande poeta spagnolo, ucciso dalla guerra civile fascista. Qui accanto un suo disegno. In calce, il link a un sito molto completo

LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS

(1935)

Alla cara amica

Encarnación López Júlvez

1 - Il cozzo e la morte

Alle cinque della sera.

Eran le cinque in punto della sera.

Un bambino portò il lenzuolo bianco

alle cinque della sera.

Una sporta di calce già pronta

alle cinque della sera.

Il resto era morte e solo morte

alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni

alle cinque della sera.

E l’ossido seminò cristallo e nichel

alle cinque della sera.

Già combatton la colomba e il leopardo

alle cinque della sera.

E una coscia con un corno desolato

alle cinque della sera.

Cominciarono i suoni di bordone

alle cinque della sera.

Le campane d’arsenico e il fumo

alle cinque della sera.

Negli angoli gruppi di silenzio

alle cinque della sera.

Solo il toro ha il cuore in alto!

alle cinque della sera.

Quando venne il sudore di neve

alle cinque della sera,

quando l’arena si coperse di iodio

alle cinque della sera,

la morte pose le uova nella ferita

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Alle cinque in punto della sera.

Una bara con ruote è il letto

alle cinque della sera.

Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie

alle cinque della sera.

Il toro già mugghiava dalla fronte

alle cinque della sera.

La stanza s’iridava d’agonia

alle cinque della sera.

Da lontano già viene la cancrena

alle cinque della sera.

Tromba di giglio per i verdi inguini

alle cinque della sera.

Le ferite bruciavan come soli

alle cinque della sera.

E la folla rompeva le finestre

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Ah, che terribili cinque della sera!

Eran le cinque a tutti gli orologi!

Eran le cinque in ombra della sera!

2 - Il sangue versato

Non voglio vederlo!

Di’ alla luna che venga,

ch’io non voglio vedere il sangue

d’Ignazio sopra l’arena.

Non voglio vederlo!

La luna spalancata.

Cavallo di quiete nubi,

e l’arena grigia del sonno

con salici sullo steccato.

Non voglio vederlo!

Il mio ricordo si brucia.

Ditelo ai gelsomini

con il loro piccolo bianco!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo

passava la sua triste lingua

sopra un muso di sangue

sparso sopra l’arena,

e i tori di Guisando,

quasi morte e quasi pietra,

muggirono come due secoli

stanchi di batter la terra.

No.

Non voglio vederlo!

Sui gradini salì Ignazio

con tutta la sua morte addosso.

Cercava l’alba,

ma l’alba non era.

Cerca il suo dritto profilo,

e il sogno lo disorienta.

Cercava il suo bel corpo

e trovò il suo sangue aperto.

Non ditemi di vederlo!

Non voglio sentir lo zampillo

ogni volta con meno forza:

questo getto che illumina

le gradinate e si rovescia

sopra il velluto e il cuoio

della folla assetata.

Chi mi grida d’affacciarmi?

Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi

quando vide le corna vicino,

ma le madri terribili

alzarono la testa.

E dagli allevamenti

venne un vento di voci segrete

che gridavano ai tori celesti,

mandriani di pallida nebbia.

Non ci fu principe di Siviglia

da poterglisi paragonare,

né spada come la sua spada

né cuore così vero.

Come un fiume di leoni

la sua forza meravigliosa,

e come un torso di marmo

la sua armoniosa prudenza.

Aria di Roma andalusa

gli profumava la testa

dove il suo riso era un nardo

di sale e d’intelligenza.

Che gran torero nell’arena!

Che buon montanaro sulle montagne!

Così delicato con con le spighe!

Così duro con gli speroni!

Così tenero con la rugiada!

Così abbagliante nella fiera!

Così tremendo con le ultime

banderillas di tenebra!

Ma ormai dorme senza fine.

Ormai i muschi e le erbe

aprono con dita sicure

il fiore del suo teschio.

E già viene cantando il suo sangue:

cantando per maremme e praterie,

sdrucciolando sulle corna intirizzite,

vacillando senz’anima nella nebbia,

inciampando in mille zoccoli

come una lunga, scura, triste lingua,

per formare una pozza d’agonia

vicino al Guadalquivir delle stelle.

Oh, bianco muro di Spagna!

Oh, nero toro di pena!

Oh, sangue forte d’Ignazio!

Oh, usignolo delle sue vene!

No.

Non voglio vederlo!

Non v’è calice che lo contenga,

non rondini che se lo bevano,

non v’è brina di luce che lo ghiacci,

né canto né diluvio di gigli,

non v’è cristallo che lo copra d’argento.

No.

Io non voglio vederlo!!

3 - Corpo presente

La pietra è una fronte dove i sogni gemono

senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.

La pietra è una spalla per portare il tempo

Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.

Ho visto piogge grigie correre verso le onde

alzando le tenere braccia crivellate

per non esser prese dalla pietra stesa

che scioglie le loro membra senza bere il sangue.

Perché la pietra coglie semenze e nuvole,

scheletri d’allodole e lupi di penombre,

ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,

ma arene e arene e un’altra arena senza muri.

Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.

Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:

la morte l’ha coperto di pallidi zolfi

e gli ha messo una testa di scuro minotauro.

Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.

Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,

e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,

si riscalda in cima agli allevamenti.

Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.

Siamo con un corpo presente che sfuma,

con una forma chiara che ebbe usignoli

e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.

Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!

Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,

né pianta gli speroni né spaventa il serpente:

qui non voglio altro che gli occhi rotondi

per veder questo corpo senza possibile riposo.

Voglio veder qui gli uomini di voce dura.

Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:

gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano

con una bocca piena di sole e di rocce.

Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.

Davanti a questo corpo con le redini spezzate.

Voglio che mi mostrino l’uscita

per questo capitano legato dalla morte.

Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume

ch’abbia dolci nebbie e profonde rive

per portar via il corpo di Ignazio e che si perda

senza ascoltare il doppio fiato dei tori.

Si perda nell’arena rotonda della luna

che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;

si perda nella notte senza canto dei pesci

e nel bianco spineto del fumo congelato.

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti

perché s’abitui alla morte che porta.

Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.

Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

4 - Anima assente

Non ti conosce il toro né il fico,

né i cavalli né le formiche di casa tua.

Non ti conosce il bambino né la sera

perché sei morto per sempre.

Non ti conosce il dorso della pietra,

né il raso nero dove ti distruggi.

Non ti conosce il tuo ricordo muto

perché sei morto per sempre.

Verrà l’autunno con conchiglie,

uva di nebbia e monti aggruppati,

ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi

perché sei morto per sempre.

Perché sei morto per sempre,

come tutti i morti della Terra,

come tutti i morti che si scordano

in un mucchio di cani spenti.

Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.

Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.

L’insigne maturità della tua conoscenza.

Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.

La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.

Tarderà molto a nascere, se nasce,

un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.

Io canto la sua eleganza con parole che gemono

e ricordo una brezza triste negli ulivi.

La vita e le opere di Federico Garcìa Lorca

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